Articolo su Huffington Post con Francesco Ferrante
Finalmente, dopo anni di incertezza, è stato individuato il vero colpevole dei problemi drammatici dell’Ilva di Taranto: è il governatore della Puglia Michele Emiliano, che insieme al sindaco della città Rinaldo Melucci ha impugnato davanti al Tar il decretovarato dal governo il 29 settembre scorso con cui veniva modificato il piano di risanamento ambientale dello stabilimento siderurgico.
Nella realtà gli argomenti di questa indignata levata di scudi contro Emiliano, ripetuti più o meno identici dai sindacati, assomigliano maledettamente a una gigantesca “bufala”, a una delle tanto vituperate “fake-news”. Certo è opinabile che temi come questo, che attengono squisitamente ai compiti del decisore politico, siano “devoluti” alla giustizia amministrativa, ma nel merito è fuori di dubbio che Emiliano con la sua scelta di ricorrere contro l’ennesimo decreto “salva-Ilva” si sia limitato a ribadire, per dirla con la favola di Andersen, che “il re è nudo”, abbia certificato che dietro quest’ultimo provvedimento del governo come dietro tutti gli altri sullo stesso tema che l’hanno preceduto, vi è una stessa inaccettabile “filosofia”: l’Ilva va tenuta in vita a ogni costo perché dà lavoro a migliaia di persone e perché l’acciaio è una produzione strategica. Va tenuta in vita anche a costo di ridimensionare le garanzie a tutela della salute e dell’ambiente.
Il piano inclinato dei decreti “salva-Ilva” è cominciato nell’estate 2010 con il governo Berlusconi, che autorizzò un innalzamento dei limiti di emissione per il benzo(a)pirene nelle città con oltre 150mila abitanti: nei fatti una misura disegnata sull’Ilva di Taranto. Nel luglio 2012 la Procura tarantina dispose il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e mise sotto indagine penale (e agli arresti) per disastro ambientale i Riva, proprietari dell’impianto; il sequestro venne cancellato pochi mesi dopo, a fine 2012, da un decreto del governo Monti che autorizza l’Ilva a produrre per i successivi 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti alle prescrizioni ambientali dell’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale.
Nel 2013 il governo Letta prima nominò commissario straordinario dell’Ilva Enrico Bondi, già amministratore delegato scelto dai Riva, poi concesse all’Ilva di smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento, in deroga alle norme ambientali.
Matteo Renzi appena arrivato a Palazzo Chigi impose sull’Ilva un cambio di passo: l’azienda venne “nazionalizzata” espropriandone i Riva, con l’intenzione dichiarata di avviare il risanamento ambientale (utilizzando gli 1,2 miliardi sequestrati ai vecchi proprietari) e poi di rimetterla sul mercato. Ma il governo Renzi ha varato anche una serie di misure per consentire all’Ilva di fare cose che in generale sono vietate: poteva limitarsi ad attuare solo l’80% delle prescrizioni dell’Aia, mentre il commissario straordinario veniva protetto con una sorta di “guarentigia” per renderlo immune da eventuali provvedimenti giudiziari.
Con il decreto del giugno 2016 Renzi si è spinto anche oltre: veniva concessa una nuova proroga, 18 mesi, ai tempi di attuazione delle prescrizioni ambientali, e si prevedeva la facoltà per chi avrebbe acquistato l’Ilva di proporre modifiche anche rilevanti al piano di risanamento ambientale che con decreto del presidente del consiglio dei ministri avrebbero sostituito le vecchie prescrizioni.
Il decreto del settembre scorso, giunto all’indomani della scelta del governo di vendere l’Ilva agli indiani di Arcelor Mittal (supportati da Intesa San Paolo e gruppo Marcegaglia) preferendoli all’altra cordata sempre indiana (Jindal in alleanza con Del Vecchio), ha segnato una tappa ulteriore nella “deregulation” ambientale “salva-Ilva”: “ha concesso di fatto – ha dichiarato Emiliano – una ulteriore inaccettabile proroga, al 2023, al termine di attuazione delle prescrizioni ambientali, già da tempo scadute e rimaste inottemperate”.
È indiscutibilmente così, ed è un’autentica follia: significa che ancora per sei anni l’Ilva potrà continuare a devastare l’aria, la terra, il mare, la salute di Taranto. Uno schiaffo alle attese dei tarantini, la conferma del basso profilo ambientale della cordata che sta acquistando l’Ilva (nelle cui intenzioni, è un altro esempio significativo, non vi è traccia della richiesta, avanzata dalla Regione Puglia e prima ancora dal subcommissario ambientale Edo Ronchi,e anch’essa decisiva per un vero risanamento ambientale del sito industriale e di tutta l’area di Taranto, di programmare una graduale “decarbonizzazione” dell’acciaieria, oggi alimentata interamente a carbone).
Quello che Calenda, Galletti, i sindacati sembrano non capire o preferiscono ignorare è che nel 2017 produrre acciaio, come ogni altro manufatto, infischiandosene delle leggi e della salute non è “moderno”, non è “economico” e va contro ogni logica di mercato.
Non è moderno perché della modernità fa parte la consapevolezza, sempre più diffusa e condivisa, che oggi il benessere non tolleri alcuno scambio tra lavoro e salute. Ciò vale a Taranto come in tutti quegli altri casi – da Duisburg, a Bilbao, a Pittsburgh, a Dangjin in Corea – nei quali si è posto ed è stato affrontato un problema analogo, per ragioni collegate alla competitività economica ma anche alla sostenibilità ambientale, di riconversione ecologica della siderurgia.
Pensare che alla crisi dell’Ilva di Taranto si debba rispondere a forza di deroghe ed eccezioni alle leggi ordinarie, e magari facendo leva su una sorta di ricatto occupazionale, è anche un’idea profondamente anti-economica. Soprattutto per un Paese come l’Italia, dove produrre costa di più che in buona parte del mondo, puntare per il futuro dell’industria sull’eccellenza tecnologico-ambientale e insieme sulla qualità e creatività tradizionali della manifattura italiana non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi: è l’unica via realistica per difendere le nostre capacità competitive in campo industriale e con esse il lavoro di milioni di persone.