Era il giugno 2011. Un centinaio di lavoratori dello spettacolo – attori, tecnici, registi – occupavano il Teatro Valle nel cuore di Roma per salvare dal declino, forse dalla scomparsa dopo la chiusura dell’Eti che gestiva da decenni la struttura, questa che è una delle più prestigiose istituzioni teatrali italiane: qui andò in scena (il 9 maggio 1921) la “prima” di “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, da qui sono passati tutti i più grandi protagonisti della storia del teatro italiano.
Generose e condivisibili le parole d’ordine di quell’atto di nobile ribellione: la cultura è un “bene comune”, no alla logica dei tagli continui e lineari ai già poverissimi budget pubblici della spesa culturale. Promettente anche l’avvio di questa esperienza di “autogestione”: presentata come condizione per scongiurare la temuta fine del Valle e come una tappa che in breve tempo avrebbe restituito il teatro alla sua funzione di luogo pubblico di produzione e trasmissione di cultura.
Dopo tre anni, e nonostante alcune iniziative culturali di pregio, la vicenda del Teatro Valle occupato è imprigionata in una via senza uscita: per rimanere in tema non assomiglia a un dramma e nemmeno a una commedia, piuttosto ha acquistato i tratti inequivocabili della farsa.
Partiti con buonissime intenzioni per garantire la sopravvivenza di un prezioso bene comune, gli occupanti hanno finito per realizzare la privatizzazione di quello che era comunque prima di loro uno spazio pubblico. Sicuramente in difficoltà finanziaria, forse mal gestito, ma pubblico.
Un gruppo di persone proclamatesi garanti dell’interesse pubblico si è impossessato stabilmente di questo spazio, che è anche un bene architettonico tutelato, e da allora lo conduce fuori da qualunque controllo democratico e di legalità, scegliendo a discrezione chi ospitare e chi no, autoazzerandosi il pagamento dell’elettricità e della tassa sui rifiuti.
Ora il sindaco Marino finalmente ha detto basta: il Teatro Valle deve tornare alla città, la scelta su chi, come, con quante e quali risorse deve gestirlo va affidata a procedure trasparenti e legali. Insomma, chi nel nome del “benecomunismo” l’ha privatizzato deve lasciare il campo. La speranza è che a queste parole seguano fatti conseguenti: l’apologo quasi orwelliano del Valle occupato trasformato in una novella “Fattoria degli animali” – da utopia assembleare a oligarchia abusiva -, esempio mirabile di eterogenesi dei fini, è durato troppo.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante