POLÍTICA

Quelli (come Panebianco) che “o i veleni dell’Ilva o niente sviluppo”

ALTOFORNO

Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post

La questione Ilva è drammatica. Per gli aspetti legati alla salute e all’ambiente innanzitutto, ma anche per il futuro industriale del nostro Paese. A oggi è impossibile dire se l’estremo tentativo in atto di dimostrare che in Italia si può produrre acciaio senza avvelenare territorio, cittadini e lavoratori (come si riesce a fare in mezzo mondo) avrà successo.

Di sicuro sono in parecchi a “remare contro”: prima fra tutti la confindustriale Federacciai che incapace di liberarsi della tutela del suo più importante “socio”, quel Riva primo responsabile dello scempio di regole e salute che si consuma a Taranto da decenni, non trova di meglio che gridare all’attentato alla “libertà di impresa” per i timidi tentativi del Governo di limitare, minacciando il commissariamento, il potere di ricatto dei Riva che hanno appena deciso la “serrata” di tutti i loro impianti italiani.

Curioso anche l’atteggiamento del quotidiano di Confindustria, che in difesa dei padroni dell’Ilva ha titolato “All’estero più rispetto”, fingendo di ignorare che all’estero non sarebbe stato consentito a nessuno di fare impunemente ciò che i Riva hanno fatto a Taranto per quasi vent’anni.

Ma i paradossi non finiscono qui. Al “coro” di Confindustria si uniscono voci più insospettabili, come quella recente di Angelo Panebianco che in un editoriale pubblicato qualche giorno fa sul Corriere della Sera ha esposto il seguente sillogismo: chi pretende che l’Ilva smetta di avvelenare impunemente la città di Taranto è un nemico del progresso e dello sviluppo e un sostenitore della “decrescita infelice”. Del resto, da quando la magistratura, dopo anni di colpevole distrazione, è intervenuta per riportare legalità dentro i cancelli della fabbrica dei Riva, in molti hanno ripetuto concetti analoghi.

Questo più o meno il ragionamento: i giudici, gli ecologisti, tutti quei tarantini che se la prendono con l’Ilva, ce l’hanno in realtà con l’industria, anzi ce l’hanno con lo sviluppo economico in genere. Loro vorrebbero la “decrescita infelice”, sono pericolosi visionari che mentre inseguono utopie senza futuro intanto lavorano contro l’interesse dell’Italia e per aggravare le conseguenze della crisi economica.

Queste, bisogna dirlo, sono stupidaggini, ed è un peccato che un osservatore autorevole come Panebianco le amplifichi e nobiliti mettendoci la sua firma.

Produrre acciaio, come ogni altro manufatto, infischiandosene delle leggi e della salute non è “moderno” e non è nemmeno “economico”.

Non è moderno perché della modernità fa parte l’idea, sempre più diffusa e condivisa, che oggi il benessere non tolleri alcuno scambio tra lavoro e salute. Questo vale a Taranto come in tutti quegli altri casi – da Duisburg, a Bilbao, a Pittsburgh, a Dangjin in Corea – nei quali si è posto un problema analogo, per ragioni collegate alla competitività economica ma anche alla sostenibilità ambientale, di riconversione ecologica della siderurgia.

Ad essere “pre-moderna”, allora, è proprio la contrapposizione tra qualità ambientale e sviluppo economico proposta da Panebianco: un cascame novecentesco che è tuttora frequentatissimo nelle nostre classi dirigenti, e che spiega perché mentre nelle altre situazioni citate si sono fatti investimenti rilevantissimi per introdurre le più avanzate tecnologie anti-inquinamento, per delocalizzare gli stabilimenti fuori dai centri abitati, per bonificare i siti contaminati da decenni di inquinamento industriale, per diversificare la produzione industriale verso altri settori economicamente e ambientalmente più promettenti, invece a Taranto si è permesso ai Riva – l’hanno permesso in tanti, dalla politica di destra e di sinistra al sindacato – di intascare gli immensi profitti del decennio d’oro dell’acciaio, durato fino a pochi anni fa, senza spendere un euro in bonifiche e miglioramenti tecnologici.

I Riva improvvisamente si sono “pentiti” e vogliono cambiare strada? Bene, hanno un modo semplice e immediato per dimostrarlo: basta che intanto mettano a disposizione (lo ha ricordato, sempre sul Corriere della Sera, Luigi Ferrarella) quel miliardo e duecento milioni esportati illegalmente e occultati in 8 diversi “trust” nel paradiso fiscale di Jersey.

Infine, questa dello scambio tra lavoro e salute è anche un’idea sostanzialmente anti-economica. Soprattutto per un Paese come l’Italia, dove produrre costa più che in buona parte del mondo, puntare per il futuro dell’industria sull’eccellenza tecnologico-ambientale e insieme sulla qualità e creatività tradizionali della manifattura italiana non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi: è l’unica via realistica per difendere le nostre capacità competitive in campo industriale e con esse il lavoro di milioni di persone.

Insomma, altro che ecologisti contro l’industria: dall’acciaio all’automobile, dalla chimica ai settori trainanti del “made-in-Italy”, la “green economy” in salsa italiana – la “italian economy” come l’ha chiamata Renzo Piano in una bellissima intervista a Curzio Maltese sula Repubblica – è la principale àncora di salvezza se si vuole scongiurare la deindustrializzazione dell”Italia. La classe politica, quasi tutta, finora non l’ha capito. Temiamo neppure Panebianco.

Nomenclatura Pd: quanti folgorati sulla via di Firenze!

Renzi-Franceschini

Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post – 

Folgorati sulla via di Firenze. Fino a ieri, davvero fino a ieri, rappresentavano Renzi come un intruso da mettere alla porta, l’artefice spregiudicato e temibile di un’opa ostile sul Pd, un corpo estraneo alla cultura e alla tradizione della sinistra italiana. Oggi lo osannano come il salvatore della casa democratica.

È la parabola repentina e sconcertante di tanti capi e capetti democratici scopertisi all’improvviso renzianissimi: da Fassino a Franceschini, da Fioroni a Sereni, fino all’intero stato maggiore del Pd emiliano. Eppure il discorso pubblico del sindaco di Firenze è rimasto più o meno lo stesso di prima: il Pd come lo vuole Renzi è un partito post-ideologico, leggero, che ambisce a rappresentare valori e interessi e a raccogliere voti ben oltre lo stretto recinto della sinistra “d’antan”.

Inutile scandalizzarsi per questa ondata massiccia di conversioni: così va il mondo, così soprattutto va la politica italiana. Noi però che pure quando militavamo nel Pd fummo tra i pochissimi parlamentari democratici a sostenere Renzi come candidato premier del centrosinistra, troviamo non del tutto peregrina l’obiezione mossa ai “convertiti” da Pierluigi Bersani: adesso vi piace Renzi e va benissimo, ma fate lo sforzo di nobilitare il cambio di casacca fondandolo su qualcos’altro a parte la vostra convenienza personale e di gruppo. Per esempio (questo non lo dice Bersani…) spiegateci che andate con Renzi perché avete capito che il finanziamento pubblico dei partiti va abolito, o perché sull’ambiente o sul welfare o sul lavoro vi sembra più convincente di Cuperlo e di Fassina.

Insomma: nessuno può pretendere dai “convertiti” riflessioni lunghe e approfondite tipo le Lettere di San Paolo ai Corinzi o ai Romani scritte dopo quell’altra folgorazione, ma per lo meno ci regalino qualche tweet – facciamo dieci, sono 1400 caratteri – per dissipare dubbi sgradevoli sulle ragioni del loro acrobatico salto di corsia.

5 settembre 2013

Qui il post su Huffington Post 

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