Inquinamento

Notizia clamorosa: il Pil mondiale aumenta ma diminuiscono le emissioni nocive

detail of white smoke polluted sky

“Ottime notizie da Parigi: dopo oltre due secoli di aumento costante, per la prima volta nel 2015 le emissioni di gas serra, con il Pil che sale, diminuiranno dello 0,6%. E’ in corso quello che viene definito disaccoppiamento, ovvero si può produrre di più inquinando di meno, smontando le teorie e le resistenze di chi considera l’inquinamento un fattore economico ineludibile”.

Lo dichiarano gli esponenti di Green Italia, presenti alla Cop 21 di Parigi, in merito allo studio presentato oggi in conferenza stampa dal prestigioso istituto di ricerca Tyndall Centre for Climate Change Research dell’università East Anglia.

“Da diversi decenni a questa parte – continuano Della Seta e Ferrante – il livello di inquinamento prodotto dall’anidride carbonica è sempre aumentato, anche nel pieno della crisi economica mondiale.

Il dato annunciato dall’istituto Tyndall costituisce uno spartiacque nell’andamento dell’economia globale, e uno stimolo alla politica affinchè vengano presi accordi vincolanti per invertire realmente la tendenza a livello globale di emissioni inquinanti.

I principali emettitori mondiali di CO2 o prenderanno impegni precisi e verificabili, per ridurre costantemente nei prossimi 10/15 anni i livelli di inquinamento, oppure l’umanità sarà esposta ai danni devastanti e tutt’altro che inevitabili di un ulteriore innalzamento del riscaldamento globale”.

La Guerra (Taciuta) dell’aria che ogni anno ci costa 43 mld e 67mila morti

SMOG

“67.921 morti invisibili per lo Stato, un costo medio annuo di 43 miliardi di euro e 2,5 punti di Pil ‘in fumo’ a causa dell’inquinamento e 3,5 milioni di giornate lavorative perse ogni anno. Sono queste le cifre agghiaccianti che racconta il dossier “La Guerra (taciuta) dell’Aria” presentato oggi a Roma dal leader dei Verdi Angelo Bonelli e dall’esponente di Green Italia Roberto Della Seta. Dati incredibili e che si stenterebbe a considerare “reali” se non fossero stati resi pubblici da un organismo internazionale come l’AEA, Agenzia europea per l’ambiente
Il dossier ha rielaborato i dati dello studio sulla qualità dell’aria e reso pubblico lo scorso 14 novembre dall’AEA che ha calcolato l’impatto su salute e ambiente includendo le morti premature, i costi per la sanità, i giorni lavorativi persi, la riduzione dei raccolti agricoli. Particolarmente interessante è la classifica degli impianti europei più inquinanti. Secondo lo studio europeo l’Ilva di Taranto risulta nella Top 30 degli impianti Ue più inquinanti con un danno economico provocato, come dato medio, di 2,5 miliardi di euro. Read More…

Quelli (come Panebianco) che “o i veleni dell’Ilva o niente sviluppo”

ALTOFORNO

Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post

La questione Ilva è drammatica. Per gli aspetti legati alla salute e all’ambiente innanzitutto, ma anche per il futuro industriale del nostro Paese. A oggi è impossibile dire se l’estremo tentativo in atto di dimostrare che in Italia si può produrre acciaio senza avvelenare territorio, cittadini e lavoratori (come si riesce a fare in mezzo mondo) avrà successo.

Di sicuro sono in parecchi a “remare contro”: prima fra tutti la confindustriale Federacciai che incapace di liberarsi della tutela del suo più importante “socio”, quel Riva primo responsabile dello scempio di regole e salute che si consuma a Taranto da decenni, non trova di meglio che gridare all’attentato alla “libertà di impresa” per i timidi tentativi del Governo di limitare, minacciando il commissariamento, il potere di ricatto dei Riva che hanno appena deciso la “serrata” di tutti i loro impianti italiani.

Curioso anche l’atteggiamento del quotidiano di Confindustria, che in difesa dei padroni dell’Ilva ha titolato “All’estero più rispetto”, fingendo di ignorare che all’estero non sarebbe stato consentito a nessuno di fare impunemente ciò che i Riva hanno fatto a Taranto per quasi vent’anni.

Ma i paradossi non finiscono qui. Al “coro” di Confindustria si uniscono voci più insospettabili, come quella recente di Angelo Panebianco che in un editoriale pubblicato qualche giorno fa sul Corriere della Sera ha esposto il seguente sillogismo: chi pretende che l’Ilva smetta di avvelenare impunemente la città di Taranto è un nemico del progresso e dello sviluppo e un sostenitore della “decrescita infelice”. Del resto, da quando la magistratura, dopo anni di colpevole distrazione, è intervenuta per riportare legalità dentro i cancelli della fabbrica dei Riva, in molti hanno ripetuto concetti analoghi.

Questo più o meno il ragionamento: i giudici, gli ecologisti, tutti quei tarantini che se la prendono con l’Ilva, ce l’hanno in realtà con l’industria, anzi ce l’hanno con lo sviluppo economico in genere. Loro vorrebbero la “decrescita infelice”, sono pericolosi visionari che mentre inseguono utopie senza futuro intanto lavorano contro l’interesse dell’Italia e per aggravare le conseguenze della crisi economica.

Queste, bisogna dirlo, sono stupidaggini, ed è un peccato che un osservatore autorevole come Panebianco le amplifichi e nobiliti mettendoci la sua firma.

Produrre acciaio, come ogni altro manufatto, infischiandosene delle leggi e della salute non è “moderno” e non è nemmeno “economico”.

Non è moderno perché della modernità fa parte l’idea, sempre più diffusa e condivisa, che oggi il benessere non tolleri alcuno scambio tra lavoro e salute. Questo vale a Taranto come in tutti quegli altri casi – da Duisburg, a Bilbao, a Pittsburgh, a Dangjin in Corea – nei quali si è posto un problema analogo, per ragioni collegate alla competitività economica ma anche alla sostenibilità ambientale, di riconversione ecologica della siderurgia.

Ad essere “pre-moderna”, allora, è proprio la contrapposizione tra qualità ambientale e sviluppo economico proposta da Panebianco: un cascame novecentesco che è tuttora frequentatissimo nelle nostre classi dirigenti, e che spiega perché mentre nelle altre situazioni citate si sono fatti investimenti rilevantissimi per introdurre le più avanzate tecnologie anti-inquinamento, per delocalizzare gli stabilimenti fuori dai centri abitati, per bonificare i siti contaminati da decenni di inquinamento industriale, per diversificare la produzione industriale verso altri settori economicamente e ambientalmente più promettenti, invece a Taranto si è permesso ai Riva – l’hanno permesso in tanti, dalla politica di destra e di sinistra al sindacato – di intascare gli immensi profitti del decennio d’oro dell’acciaio, durato fino a pochi anni fa, senza spendere un euro in bonifiche e miglioramenti tecnologici.

I Riva improvvisamente si sono “pentiti” e vogliono cambiare strada? Bene, hanno un modo semplice e immediato per dimostrarlo: basta che intanto mettano a disposizione (lo ha ricordato, sempre sul Corriere della Sera, Luigi Ferrarella) quel miliardo e duecento milioni esportati illegalmente e occultati in 8 diversi “trust” nel paradiso fiscale di Jersey.

Infine, questa dello scambio tra lavoro e salute è anche un’idea sostanzialmente anti-economica. Soprattutto per un Paese come l’Italia, dove produrre costa più che in buona parte del mondo, puntare per il futuro dell’industria sull’eccellenza tecnologico-ambientale e insieme sulla qualità e creatività tradizionali della manifattura italiana non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi: è l’unica via realistica per difendere le nostre capacità competitive in campo industriale e con esse il lavoro di milioni di persone.

Insomma, altro che ecologisti contro l’industria: dall’acciaio all’automobile, dalla chimica ai settori trainanti del “made-in-Italy”, la “green economy” in salsa italiana – la “italian economy” come l’ha chiamata Renzo Piano in una bellissima intervista a Curzio Maltese sula Repubblica – è la principale àncora di salvezza se si vuole scongiurare la deindustrializzazione dell”Italia. La classe politica, quasi tutta, finora non l’ha capito. Temiamo neppure Panebianco.

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