GRILLO

Berlusconi ha ragione (sul serio): quanti comunisti!

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Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post

Su un punto Berlusconi ha ragione da vendere: il guaio della sinistra italiana è che a guidarla sono ancora i “comunisti”. Secondo lui questo dimostra tutta la sua pericolosità, invece è la base principale della sua debolezza.

Sono comunisti perché continuano a misurare lo sviluppo e il progresso secondo categorie che separano struttura – il lavoro, la condizione materiale delle persone – e sovrastruttura – la legalità, la cultura, l’ambiente, la dimensione immateriale del benessere.

Sono comunisti perché sempre in ritardo sulla realtà che cambia: al contrario del celebre aforisma di Rilke, “il futuro entra in loro molto dopo che accade”.

Sono comunisti perché pensano l’economia come si pensava un secolo fa: non più “soviet e elettrificazione” ma comunque carbone (Ilva e dintorni), asfalto, cemento.

Sono comunisti perché occupati costantemente a mostrare che non lo sono più, il che li spinge – dal Quirinale all’ultimo sindaco – a idolatrare il compromesso, a compiacere ogni genere di interesse costituito e di potere consolidato (palazzinari, Riva, Colaninno…), a rifuggire da qualunque radicalità si chiami patrimoniale o stop al consumo di suolo o diritti dei gay.

Sono comunisti perché si sentono molto migliori del “popolo”, del popolo rozzo e ignorante che si fa infinocchiare da Berlusconi o da Grillo.

Sono comunisti perché, a imitazione del glorioso Pci, se devono scegliere tra un democristiano conservatore e rassicurante come Letta e un azzardato e inusuale innovatore come Renzi, vanno immancabilmente, per dirla con Bersani, sull’usato sicuro.

Rimane da capire se questo Pd a trazione cripto-comunista sia frutto pure lui del ventennio berlusconiano, un suo sgradevole effetto collaterale come le bombe intelligenti che quasi sempre ammazzano anche un bel po’ di civili. Ipotesi affascinante: vorrebbe dire che uscito di scena il Cavaliere – prima o poi succederà – persino in Italia scopriremo l’emozione di avere una sinistra che fa la sinistra, cioè che prova a cambiare il mondo.

Sessantenne, moderato, socialista: un leader perfetto per questo PD

Articolo su Huffington Post

Se la leadership di un partito deve rifletterne profilo e consistenza, Epifani è il leader perfetto per questo Pd.

Ha 60 anni, cioè più o meno l’’età media ‘– secondo un recente sondaggio Ipsos ‘– di oltre metà dell’’attuale elettorato democratico (in Italia non c’’è un altro partito con una percentuale così alta di elettori sopra i 55 anni).

Non è certamente un radicale, anzi nella sua esperienza politica ha sempre agito da ‘“uomo di mezzo’”: nel Psi un po’’ più a sinistra di Craxi, come segretario Cgil un po’’ più a destra del predecessore Cofferati.

È figlio della tradizione socialista. Va detto per onestà intellettuale: figlio legittimo e non improvvisato, diversamente da quasi tutta la nomenclatura ex-Ds che socialista è divenuta soltanto a babbo morto (‘“babbo’” era il Pci).

Nessuno sa se Epifani sarà solo un ‘“traghettatore’” (come molti vorrebbero sentirgli dire e come lui, immaginiamo, non dirà mai) o se una volta eletto segretario gli verrà voglia di insistere. Certo la sua storia, la sua immagine, il modo in cui è stato scelto sembrano quanto di più lontano dall’’idea originaria del Pd e invece fotografano con notevole nitidezza il paradosso che rischia di inghiottire il Partito democratico: politicamente un ‘“neonato’”, di gran lunga il più giovane tra tutti i partiti italiani ‘– più giovane persino del movimento di Grillo -, ma un neonato che dopo appena sei anni di vita sembra sfibrato e quasi immobile come un ultracentenario.

Perché questa deriva? Forse il vizio sta nell’’origine, nell’’illusione che una scommessa ambiziosa e difficile come quella di dare vita a un partito riformista di massa con la testa, le gambe, il cuore nei problemi e nelle sfide del XXI secolo, potesse essere giocata e vinta da gruppi dirigenti che non solo anagraficamente, ma culturalmente, la testa, le gambe e il cuore ce l’’hanno altrove, ce l’’hanno in esperienze e in pensieri irrimediabilmente datati.

Insomma, era da ingenui (noi siamo tra quegli ingenui) aspettarsi molto di più e di diverso da un partito i cui capi si dividono tra la Scilla dei neo-laburisti alla Stefano Fassina per i quali il lavoro si difende e l’’economia si rilancia buttando miliardi ‘– è un esempio, ma un esempio illuminante ‘– per tenere aperte le miniere del Sulcis, e la Cariddi dei neo-centristi che sognano ‘– meglio sognavano: il sogno è quasi realtà ‘– di trasformare il Pd in una mini-Dc programmaticamente estranea ad ogni velleità di cambiamento radicale.

Naturalmente moltissimi elettori del Pd vorrebbero altro, vorrebbero un partito che dia voce, spazio, peso a quella ‘“altrapolitica’” ‘– come la battezzò mesi fa Stefano Rodotà ‘– che abbonda nella società e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. E’’ la politica dei giovani che chiedono un welfare che protegga e sostenga le persone più che i posti di lavoro, delle imprese che da tempo hanno scommesso sulla ‘“green economy’” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’’innovazione, dei cittadini che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, allargamento della sfera dei beni comuni dall’’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono classificabili come ‘“liberali’”, altre nascono dall’’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande ‘“radicali’”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche.

Ecco, pare improbabile che chi si riconosce in questa prospettiva si lasci coinvolgere o anche solo incuriosire sia dal Pd com’’è diventato, Epifani compreso, sia da costituenti e ricostituenti varie che dovessero nascere attorno a Sel. Fuori da qui rimane uno spazio immenso di sensibilità, di opinioni, di aspirazioni a oggi senza risposta: c’’è da sperare che ad occuparlo non resti soltanto Grillo col suo indigesto (l’’ultimo no allo ‘“ius soli’” insegna’…) ‘“gramelot’” populista.

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