È una lettura istruttiva e sorprendente il documento-base del prossimo congresso fondativo di Sinistra Italiana, in programma a Rimini dal 17 al 19 febbraio prossimi. In 66 mila caratteri e 16 capitoli, il nuovo partito che raccoglie l’eredità di Sel prova a definire se stesso, la sua visione del mondo e dell’Italia, le sue proposte per il futuro.
Tra i diversi spunti d’interesse – e ripetiamo: di sorpresa – offerti da questa sorta di “manifesto” che si propone come orizzonte comune per le “membra sparse” alla sinistra del Pd renziano, due ci hanno colpito, negativamente, più degli altri.
Il primo è il capitolo sull’ambiente. Poche righe per dire che sì, difendere l’ambiente è importante; poche righe che potevano essere scritte in modo identico trenta o quarant’anni fa. Invece nessuna consapevolezza di cosa rappresenti oggi di nuovo, di inedito, anche di promettente la sfida ecologica in termini non solo etici, di lotta all’inquinamento, di attenzione ai bisogni delle generazioni future, ma di rilancio qui ed ora dell’economia e del lavoro.
Per esempio: Sinistra Italiana pensa che l’Italia debba porsi, come altri Paesi hanno fatto, l’obiettivo ravvicinato di un sistema energetico liberato dalla dipendenza da petrolio e carbone? E crede che nell’interesse degli italiani abbia ancora senso tenere in vita modelli industriali anti-ecologici e sempre di più pure anti-economici, dal Sulcis all’Ilva? Inutile cercare risposte nel documento congressuale: non ci sono, Sinistra Italiana sembra rimanere sull’argomento parecchi passi indietro alla stessa Sel che la parola ecologia l’aveva messa persino nel nome.
L’altro capitolo inatteso e scoraggiante, almeno per noi, delle tesi congressuali di Sinistra Italiana è quello sull’Europa. Si invoca un cambiamento radicale delle politiche europee che metta fine al paradigma dell’austerità come “dogma”, e questo va benissimo, ma subito dopo arriva la “bomba”: “Nelle condizioni politiche createsi nell’Unione – si legge -, l’euro ci ha resi più deboli invece che più forti. (…) In questo quadro, considerare l’assetto della moneta unica come un dato irreversibile è un elemento di debolezza. Al punto in cui siamo, opzioni che contemplino il superamento della moneta unica (…) non possono essere escluse a priori”.
Dunque Sinistra Italiana è convinta che l’Italia se avesse conservato la lira avrebbe resistito meglio alla crisi di questi anni, e che oggi farebbe bene a considerare seriamente l’ipotesi di uscire dall’Unione monetaria. Manca del tutto, in questo crescendo di “euroscetticismo”, l’idea che i sessant’anni di costruzione europea rappresentino, pure con tutti i loro limiti e lati oscuri, un patrimonio irrinunciabile: perché hanno dato senso, valore e forma a una cittadinanza europea aperta, inclusiva più forte delle vecchie appartenenze nazionali, che soprattutto per i più giovani è un’identità ormai acquisita e che ha trovato i suoi simboli più potenti nella libertà per centinaia di milioni di europei di circolare da Lampedusa ad Amburgo, da Lubiana a Lisbona senza passaporto e senza bisogno di cambiare moneta.
Questa Europa così com’è non funziona più, e in troppi casi – basti pensare alla questione migratoria – si mostra incapace di far vivere i valori di solidarietà e apertura dai quali è nata: ma tornare indietro rispetto a dove siamo arrivati in sessant’anni non è la soluzione, è il problema. Anche sul piano strettamente socio-economico, “rinazionalizzare” è poco meno di un’eresia: perché nel mondo sempre più largo e policentrico ridisegnato dalla globalizzazione, solo cancellando le frontiere interne l’Europa e gli europei possono restare protagonisti e così reagire con successo alla povertà e alle diseguaglianze che crescono, al lavoro che si perde, ai sistemi di welfare che si sgretolano.
I due capitoli citati riflettono, ci pare, l’impronta largamente “fassiniana” del documento di Sinistra Italiana: “fassiniana” nel senso che risente, nei contenuti come nel linguaggio, di una sensibilità più “neo-comunista”, com’è quella per l’appunto dell’ex-viceministro del governo Letta oggi arruolatosi tra i “no-euro”, che dell’ambizione “post-comunista” incarnata a suo tempo da Sel.
Sembra insomma riemergere, in questo approccio, la vecchia e oggi inservibile abitudine ideologica a misurare lo sviluppo e il progresso secondo categorie che separano struttura – il lavoro, la condizione materiale delle persone – e sovrastruttura – la legalità, la cultura, l’ambiente, la dimensione immateriale del benessere.
A questo ritorno al passato si somma poi probabilmente un tentativo altrettanto improbabile di fuga verso il futuro: la speranza che adottando parole d’ordine estreme come appunto il no all’euro si riesca a fare concorrenza ai vari populismi attualmente in campo, dalla Lega ai Cinquestelle.
È lo stesso obiettivo – inseguire, imitare i populisti “di successo” – che ha spinto di nuovo Fassina a solidarizzare niente di meno che con Donald Trump per la sua scelta di cassare il trattato commerciale trans-pacifico. Ma se questo è il calcolo, farebbe bene Sinistra Italiana a rivederlo in fretta: un’abbondante serie di esempi dimostra che se si tratta di scegliere tra populismi “di marca” e repliche sbiadite, la preferenza va quasi sempre all’originale.
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –