Lavoro, basta la parola?

Articolo su Huffington Post

Lavoro, lavoro, lavoro. Tutti sembrano d’accordo: il lavoro che manca, le migliaia di aziende in difficoltà costrette a licenziare, i tassi stratosferici di disoccupazione giovanile (40%), sono il problema più urgente e doloroso dell’Italia, il segno più acuto e drammatico di questa crisi interminabile.

Tutti sembrano d’accordo ma molti, troppi, affrontano il tema e propongono soluzioni considerando solo le “forme” del lavoro. Da una parte, i liberisti più o meno improvvisati di casa nostra hanno teorizzato per anni che l’economia italiana era ferma per colpa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: salvo scoprire, una volta che il “laccio” è stato allentato dal governo Monti, che ciò non ha aiutato di una virgola a ritrovare la via del lavoro. Dall’altra parte, quasi tutta la sinistra sindacale ripete da mesi che l’urgenza principale in Italia è cancellare la legge Fornero, come se prima vivessimo nell’Eldorado e non in una crisi identica a quella attuale.

Forse bisognerebbe cambiare punto di vista, magari lasciando da parte le dispute ideologiche novecentesche – mitologia della flessibilità senza limiti contro idolatria del posto fisso a vita – e partendo da ciò che accade qui ed ora, dentro la crisi e in mezzo al XXI secolo. Per esempio, per affrontare con occhi contemporanei il dramma della perdita di lavoro converrebbe dare un’occhiata a quello che è successo a Pratolongo, provincia di Padova: qui è nata una nuova fabbrica di frigoriferi, e a realizzarla – si pensi un po’… – è stato il principale produttore cinese di elettrodomestici. Proprio così: i terribili cinesi, quelli che secondo tanti cancelleranno in breve tempo l’industria manifatturiera italiana, hanno scelto il nostro nord-est per fabbricare i frigoriferi con cui dare l’assalto ai mercati europei. Lo hanno fatto malgrado il costo della manodopera tre o quattro volte superiore a quello di casa loro, malgrado le rigidità della legislazione italiana sul lavoro; lo hanno fatto perché pensano che il talento, l’inventiva del lavoro italiano siano i più adatti ad imporre i loro prodotti tra i consumatori europei.

In pochi si sono fermati su questo o su altri episodi analoghi, come in pochissimi si sono accorti di un altro dato interessante: buona parte di manifatturiero italiano di qualità che malgrado la crisi è riuscito in questi anni a difendere o persino ad aumentare il proprio export, è fatta da imprese che hanno investito in innovazione “green”, cioè nel miglioramento ambientale di prodotti e processi.

Certo in questo come in ogni campo dell’organizzazione sociale le “forme” sono importanti. Così, nessuno può negare che il nostro mercato del lavoro sia oppresso da ingessature insopportabili e soprattutto dal peso di un costo del lavoro astronomico, e nessuno dovrebbe negare (alcuni lo fanno) che vi sono diritti dei lavoratori – a cominciare dal diritto di scegliersi il sindacato che vogliono… – semplicemente indisponibili. Ma per fermare il declino competitivo e occupazionale dell’industria italiana servono, in primo luogo e per l’appunto, politiche industriali. E allora se il Presidente del consiglio Letta, come ha detto recentemente alla platea confindustriale, si pone l’obiettivo di portare il peso dell’industria dal 18% al 20% del Pil, deve dire attraverso quali azioni ritiene di centrare un traguardo così ambizioso.

Si prenda l’energia. Per abbattere i costi della bolletta elettrica delle piccole e medie imprese che soffrono di un gap eccessivo nei confronti dei loro competitori stranieri, si vuole continuare a difendere gli interessi dei grandi gruppi “fossili”, o come ha fatto con coraggio la Germania e stanno facendo gli Usa di Obama si deciderà di puntare su efficienza e rinnovabili, e sul gas come energia di transizione rinunciando invece al carbone? La Germania e ora anche gli Stati Uniti grazie a questa scelta fanno nascere molti nuovi posti di lavoro e accrescono di molto la loro autonomia energetica: l’Italia pensa di imitarli?

Sulla chimica: si continuano a rinviare all’infinito le bonifiche dei siti industriali dismessi, lasciando sul terreno, letteralmente, veleni di ogni sorta, o si punta sulla chimica verde, settore nel quale l’Italia già può vantare posizioni di leadership mondiale e che, se adeguatamente sostenuto, può consentire la creazione di lavoro efficiente e duraturo?

Ancora. Sui rifiuti si vuole davvero smantellare l’orrenda pubblicità dell’emergenza spazzatura di Napoli o di Palermo o di Roma e scommettere sulle tecnologie per massimizzare il recupero di materia, decisive per un Paese come il nostro a vocazione manifatturiera ma povero di materie prime?

L’elenco potrebbe continuare a lungo: è di questo che si parla quando si dice “green economy”; si parla di lavoro, non solo di ambiente. Un cammino così è la via maestra per portare l’Italia fuori dal tunnel della crisi, ma una via che richiede decisioni chiare e nette. Sarà in grado di prenderle un questo Governo di “larghe intese” dove dentro c’è di tutto? E sapranno sostenerle i rappresentanti degli imprenditori italiani, quella Confindustria che quando l’Europa varò il pacchetto “20-20-20” per promuovere l’innovazione energetica e combattere i cambiamenti climatici – sfida decisiva anche per rilanciare le nostre economie – si attardò in una guerra di resistenza perdente e retrograda?

ILVA, la sinistra che ha rinnegato sè stessa

Articolo su Huffington Post

Per decenni la sinistra a Taranto ha preferito intrattenere rapporti opachi, spesso illegittimi, con i padroni dell’Ilva, lasciando che avvelenassero impunemente la città, piuttosto che difendere la salute dei tarantini: insomma ha rinnegato se stessa.

Questa in due parole è la lezione che si può trarre dall’ultimo episodio giudiziario della “telenovela” Ilva, con l”arresto del presidente della provincia di Taranto Giovanni Florido. Diranno i giudici su eventuali responsabilità personali di Florido, ma alcuni fatti già parlano da soli: quando come a Taranto esponenti politici di ogni parte e colore brigano di nascosto per consentire a imprenditori infedeli come i Riva di infischiarsene delle leggi, quando volutamente e sistematicamente cercano di stendere il silenzio sugli allarmi e le denunce che da oltre un quarto di secolo (i primi dossier di Legambiente sono degli anni Ottanta) dicono la verità su questa vera e propria ‘fabbrica dei veleni’, allora una politica così perde ogni titolo e ogni diritto ad essere creduta e seguita.

Per un tempo lunghissimo, mentre solo gli ambientalisti e qualche gruppo spontaneo di cittadini gridavano le ragioni del “popolo inquinato” di Taranto, diffondevano i dati terribili sull’impatto dell’Ilva, mettevano sotto accusa i Riva che non hanno speso né una lira né un euro per risanare l’impianto, ammonivano che mettere lavoro contro ambiente era una scelta senza senso e senza futuro, gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: per prima l’azienda, poi la politica con rare eccezioni e infine lo stesso sindacato, terribilmente lento e pigro nel capire che senza una vera svolta il destino industriale dell’Ilva e quello occupazionale dei suoi lavoratori erano segnati.

Questa lunghissima stagione di irresponsabilità e di reticenza ha trasformato il caso dell’Ilva in un maledetto rompicapo. Chiudere adesso l’Ilva sarebbe una follia. Sarebbe, com’è ovvio, una follia sociale. Ma sarebbe un errore, un errore probabilmente irreparabile, anche sul piano ambientale. Ilva infatti non è solo una fabbrica che per troppo tempo ha avvelenato l’aria, l’acqua, la terra; è anche il cuore di un’immensa area da bonificare dopo decenni di intossicazione industriale, e molti casi analoghi dimostrano che se un territorio così rimane “orfano” di chi così l’ha ridotto, e perciò ha l’obbligo morale e giuridico di risanarlo, insieme al lavoro scompare anche la possibilità di una vera bonifica.

Per ricomporre il puzzle c’è probabilmente un unico modo: togliere ai Riva il controllo e la gestione dello stabilimento e al tempo stesso costringerli con tutti i mezzi legali a disposizione a pagare per il risanamento e la bonifica.

Ma la vicenda dell’Ilva si presta anche a una riflessione più generale. Quando mesi fa i giudici misero i sigilli alla fabbrica, qualche commentatore osservò che in una fase come l’attuale di acuta crisi economica la difesa del lavoro debba avere la meglio su tutto, salute compresa. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi.

Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come in qualunque altra città, non è più disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio.

Per l’industria italiana, puntare sull’eccellenza ambientale non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi; è l’unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l’automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale né il sindacato l’hanno davvero capito: c’è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

Sessantenne, moderato, socialista: un leader perfetto per questo PD

Articolo su Huffington Post

Se la leadership di un partito deve rifletterne profilo e consistenza, Epifani è il leader perfetto per questo Pd.

Ha 60 anni, cioè più o meno l’’età media ‘– secondo un recente sondaggio Ipsos ‘– di oltre metà dell’’attuale elettorato democratico (in Italia non c’’è un altro partito con una percentuale così alta di elettori sopra i 55 anni).

Non è certamente un radicale, anzi nella sua esperienza politica ha sempre agito da ‘“uomo di mezzo’”: nel Psi un po’’ più a sinistra di Craxi, come segretario Cgil un po’’ più a destra del predecessore Cofferati.

È figlio della tradizione socialista. Va detto per onestà intellettuale: figlio legittimo e non improvvisato, diversamente da quasi tutta la nomenclatura ex-Ds che socialista è divenuta soltanto a babbo morto (‘“babbo’” era il Pci).

Nessuno sa se Epifani sarà solo un ‘“traghettatore’” (come molti vorrebbero sentirgli dire e come lui, immaginiamo, non dirà mai) o se una volta eletto segretario gli verrà voglia di insistere. Certo la sua storia, la sua immagine, il modo in cui è stato scelto sembrano quanto di più lontano dall’’idea originaria del Pd e invece fotografano con notevole nitidezza il paradosso che rischia di inghiottire il Partito democratico: politicamente un ‘“neonato’”, di gran lunga il più giovane tra tutti i partiti italiani ‘– più giovane persino del movimento di Grillo -, ma un neonato che dopo appena sei anni di vita sembra sfibrato e quasi immobile come un ultracentenario.

Perché questa deriva? Forse il vizio sta nell’’origine, nell’’illusione che una scommessa ambiziosa e difficile come quella di dare vita a un partito riformista di massa con la testa, le gambe, il cuore nei problemi e nelle sfide del XXI secolo, potesse essere giocata e vinta da gruppi dirigenti che non solo anagraficamente, ma culturalmente, la testa, le gambe e il cuore ce l’’hanno altrove, ce l’’hanno in esperienze e in pensieri irrimediabilmente datati.

Insomma, era da ingenui (noi siamo tra quegli ingenui) aspettarsi molto di più e di diverso da un partito i cui capi si dividono tra la Scilla dei neo-laburisti alla Stefano Fassina per i quali il lavoro si difende e l’’economia si rilancia buttando miliardi ‘– è un esempio, ma un esempio illuminante ‘– per tenere aperte le miniere del Sulcis, e la Cariddi dei neo-centristi che sognano ‘– meglio sognavano: il sogno è quasi realtà ‘– di trasformare il Pd in una mini-Dc programmaticamente estranea ad ogni velleità di cambiamento radicale.

Naturalmente moltissimi elettori del Pd vorrebbero altro, vorrebbero un partito che dia voce, spazio, peso a quella ‘“altrapolitica’” ‘– come la battezzò mesi fa Stefano Rodotà ‘– che abbonda nella società e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. E’’ la politica dei giovani che chiedono un welfare che protegga e sostenga le persone più che i posti di lavoro, delle imprese che da tempo hanno scommesso sulla ‘“green economy’” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’’innovazione, dei cittadini che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, allargamento della sfera dei beni comuni dall’’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono classificabili come ‘“liberali’”, altre nascono dall’’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande ‘“radicali’”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche.

Ecco, pare improbabile che chi si riconosce in questa prospettiva si lasci coinvolgere o anche solo incuriosire sia dal Pd com’’è diventato, Epifani compreso, sia da costituenti e ricostituenti varie che dovessero nascere attorno a Sel. Fuori da qui rimane uno spazio immenso di sensibilità, di opinioni, di aspirazioni a oggi senza risposta: c’’è da sperare che ad occuparlo non resti soltanto Grillo col suo indigesto (l’’ultimo no allo ‘“ius soli’” insegna’…) ‘“gramelot’” populista.

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