Articolo di Roberto Della Seta su la Stampa – Tuttogreen
Come lungo un piano inclinato di cui non si conosce la fine, la legislazione d’emergenza sull’Ilva, che per decenni ha prodotto insieme all’acciaio un inquinamento devastante per la città di Taranto, continua ad accumulare deroghe, eccezioni, strappi alle norme ordinarie che regolano il rapporto tra industria e ambiente, tra industria e salute pubblica.
Siamo arrivati al decimo decreto in sei anni, e ogni volta si allarga la distanza, anche alla faccia della concorrenza, tra le leggi ambientali che valgono per tutti gli impianti industriali e lo “statuto speciale” di cui gode la più grande acciaieria d’Italia.
Cominciò Berlusconi nell’estate 2010, autorizzando un innalzamento dei limiti di emissione per il benzo(a)pirene nelle città con oltre 150mila abitanti: nei fatti una misura disegnata sull’Ilva di Taranto. Nel luglio 2012 la Procura tarantina dispone il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e mette sotto indagine penale (e agli arresti) per disastro ambientale i Riva, proprietari dell’impianto; il sequestro viene cancellato pochi mesi dopo, a fine 2012, da un decreto del governo Montiche autorizza l’Ilva a produrre per i successivi 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti alle prescrizioni ambientali dell’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale.
Nel 2013 il governo Letta prima nomina commissario straordinario dell’Ilva Enrico Bondi, già amministratore delegato scelto dai Riva, poi concede all’Ilva di smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento, in deroga alle norme ambientali.
Matteo Renzi appena arrivato a Palazzo Chigi impone sull’Ilva un cambio di passo: l’azienda viene “nazionalizzata” espropriandone i Riva, con l’intenzione dichiarata di avviare il risanamento ambientale (utilizzando gli 1,2 miliardi sequestrati ai vecchi proprietari, che però restano tuttora nelle banche svizzere) e poi di rimetterla sul mercato. Ma il governo Renzi vara anche una serie di misure per consentire all’azienda di fare cose che a tutti gli altri sono vietate: può limitarsi ad attuare solo l’80% delle prescrizioni dell’Aia, mentre il commissario straordinario gode di una sorta di “guarentigia” che lo rende immune da eventuali provvedimenti giudiziari.
Come detto, il decreto numero 10 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 6 giugno scorso e ora all’esame del Parlamento segna una tappa ulteriore in questa incessante “deregulation” targata Ilva. Viene concessa una nuova proroga, 18 mesi, ai tempi di attuazione delle prescrizioni ambientali, e l’immunità penale già prevista per il commissario straordinario viene estesa anche ai futuri, eventuali acquirenti e proprietari privati. Ma non basta: chi entro il 30 giugno presenterà un’offerta vincolante per l’acquisto o l’affitto dell’Ilva potrà proporre modifiche anche rilevanti al piano di risanamento ambientale, e con decreto del Presidente del consiglio dei ministri tali modifiche potranno sostituire i contenuti dell’Aia.
Dietro quasi tutti i decreti “salva-Ilva” vi è una stessa “filosofia”: l’Ilva va tenuta in vita ad ogni costo, perché dà lavoro a migliaia di persone e perché l’acciaio è una produzione strategica. Va tenuta in vita anche a costo di ridimensionare un po’ le garanzie a tutela della salute e dell’ambiente. In realtà è vero il contrario: produrre acciaio, come ogni altro manufatto, infischiandosene delle leggi e della salute non è “moderno”, non è “economico” e va contro ogni logica di mercato. Non è moderno perché della modernità fa parte la consapevolezza, sempre più diffusa e condivisa, che oggi il benessere non tolleri alcuno scambio tra lavoro e salute.
Ciò vale a Taranto come in tutti quegli altri casi – da Duisburg, a Bilbao, a Pittsburgh, a Dangjin in Corea – nei quali si è posto ed è stato affrontato un problema analogo, per ragioni collegate alla competitività economica ma anche alla sostenibilità ambientale, di riconversione ecologica della siderurgia. Pensare che alla crisi dell’Ilva di Taranto si debba rispondere a forza di deroghe ed eccezioni alle leggi ordinarie, o magari attraverso una sorta di scambio tra lavoro e salute, è anche un’idea profondamente anti-economica. Soprattutto per un Paese come l’Italia, dove produrre costa di più che in buona parte del mondo, puntare per il futuro dell’industria sull’eccellenza tecnologico-ambientale e insieme sulla qualità e creatività tradizionali della manifattura italiana non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi: è l’unica via realistica per difendere le nostre capacità competitive in campo industriale e con esse il lavoro di milioni di persone.
Dall’acciaio di Taranto all’automobile, dalla chimica ai settori trainanti del “made-in-Italy”, questa “green economy” in salsa italiana è la principale àncora di salvezza se si vuole scongiurare la deindustrializzazione dell’’Italia.