Articolo su Huffington Post con Francesco Ferrante
Dal 1946 fino a domenica scorsa solo una volta il principale partito della sinistra italiana era sceso sotto il 20%: nel 1992, quando il Pds guidato da Occhetto raccolse alle elezioni politiche poco più del 16%. Ma quel risultato veniva all’indomani di un cataclisma geopolitico globale – la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, il cambiamento di nome del Pci – e comunque vedeva accanto al 16% dei post-comunisti il 13% del Partito socialista e il 5% di Rifondazione comunista, nata pochi mesi prima dalla scissione dell’ex-Pci. Oggi invece pure sommando al 19% del Pd i risultati delle altre forze “progressiste”, il totale si ferma molto più in basso.
La globalizzazione ha alleggerito il peso economico e geopolitico dell’Europa: da una parte alimentando nel “vecchio continente” un disagio sociale sempre più largo fatto di povertà e disoccupazione crescenti e di una generale, diffusa paura del futuro; dall’altra riducendo la disponibilità di spesa pubblica per politiche sociali e redistributive e per questo minando alla base, tanto più in un Paese come il nostro che ha accumulato un enorme debito pubblico, quel felice patto sociale – più welfare, welfare tendenzialmente universale e in cambio un largo consenso per le forze riformiste – che ha retto per oltre mezzo secolo gli equilibri politici nell’Occidente europeo.
Infine, il terremoto del 4 marzo è l’ennesima conferma di una regola aurea della “seconda Repubblica”: dal 1994 in poi, nessuna elezione politica è stata vinta da chi aveva vinto quella precedente. Un sigillo che certifica la mediocrità delle nostre leadership politiche nazionali, i cui cicli di popolarità non sopravvivono più di qualche mese alla prova del governo.
Il verdetto delle elezioni del 4 marzo non è meno impietoso per le altre forze di sinistra. Fallimento totale per i Liberi e Uguali degli ex-Pd e di Sinistra italiana, che malgrado le praterie lasciate libere a sinistra dal Pd renziano hanno raccolto la miseria del 3%.
Unico senso palpabile dell’ “operazione LeU” è stato quello di consentire il riciclaggio di un pezzetto di vecchio ceto politico: con rarissime eccezioni (una per tutte: l’ex-presidente di Legambiente Rossella Muroni), gli eletti di Liberi e Uguali sono politici di medio o lungo corso, legati tra loro soltanto dall’anti-renzismo e dall’obiettivo di sopravvivere personalmente a se stessi.
Così, dieci anni dopo quell’altro flop elettorale della Sinistra arcobaleno, improbabile miscuglio tra comunisti, post-comunisti e Verdi che nel 2008 ottenne quasi alla virgola lo stesso risultato e rimase fuori dl Parlamento, si dimostra una volta di più che per ridare senso e futuro alla parola “sinistra” bisogna, certo, rifiutare la deriva conservatrice che sta prosciugando molti partiti socialisti ma occorre al tempo stesso voltare pagina rispetto all’immobilismo della sinistra “vetero-radicale”.
Assai povero è stato anche il bottino della lista +Europa alleata del Pd e guidata da Emma Bonino. La Bonino è un gigante al confronto con quasi tutti i protagonisti dell’attuale politica italiana, per profilo culturale e per adesione coerente a valori costitutivi di ogni credibile identità di sinistra; su un tema delicato come l’immigrazione, che ha visto lo scivolamento progressivo dello stesso Pd verso posizioni culturalmente e politicamente regressive che rincorrono la destra peggiore, ha avuto il grande merito di tenere dritta la barra della verità e della responsabilità: in Italia non c’è nessuna “invasione”, i flussi migratori non si possono fermare se non diventando complici di violazioni insopportabili dei diritti umani.
Ma l’insuccesso di +Europa dice che una sinistra convincente e competitiva non può presidiare solo il campo, pure decisivo, dei diritti civili: o dà risposte anche sul terreno della “cittadinanza sociale”, oppure appare afona.
Fuori da questo recinto, sempre più ristretto, della sinistra che si chiama per nome, c’è solo destra e c’è solo populismo? Di destra ce n’è sicuramente tanta, come da sempre in Italia; e oggi fa più paura perché egemonizzata da un partito estremista, con tratti esplicitamente anti-europei e xenofobi, com’è la Lega.
Restano i Cinquestelle: i “populisti”. Populismo è un concetto abusato. Come ha scritto Luca Ricolfi in epigrafe del suo libro dedicato al tema, citando l’economista francese Jean-Michel Naulot, “populista è l’aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”.
Si potrebbe aggiungere che per molti osservatori e commentatori, dire populismo è una comodissima scorciatoia per qualificare le scelte elettorali del popolo quando non si capiscono.
Ora, che i Cinquestelle maneggino spesso gli “attrezzi del mestiere” del peggiore populismo è indiscutibile: lo fanno adottando un linguaggio demagogico e semplificatorio che nega o rimuove la complessità dei problemi da affrontare e delle soluzioni per risolverli, lo fanno insultando e tacciando di malafede i loro competitori politici, lo hanno fatto quando per inseguire la “pancia” degli italiani si sono scagliati contro le organizzazioni umanitarie che soccorrono i migranti in mare.
Così pure, altro tratto tipico delle forze populiste, quando si sono ritrovati a essere “governo” – Roma docet – hanno spesso dato prova di improvvisazione e incompetenza più che di nuove politiche.
Ma i Cinquestelle non sono solo questo. Intanto come attestano le prime analisi dei flussi elettorali del 4 marzo, una buona fetta del boom grillino è fatto di voti in uscita dal Pd: le stime dell’Istituto Cattaneo dicono per esempio che in città importanti come Brescia, Parma, Firenze, Napoli, tra il 10% e il 35% degli elettori che questa volta hanno votato Cinquestelle, cinque anni fa avevano scelto il Partito democratico.
Tutti “neo-populisti”? Tutti improvvisamente non più di “sinistra”? Difficile crederlo, e d’altra parte anche il discorso pubblico dei Cinquestelle non è riducibile al solo vocabolario populista. Alcuni dei temi che li identificano contengono un tasso di “riformismo” maggiore, e sicuramente più contemporaneo, di quanto se ne ritrovi nel Pd di questi anni: parlano molto di ambiente, proponendolo come una questione centrale su cui fondare oggi politiche di progresso, e con l’idea del reddito di cittadinanza – certo di difficilissima realizzazione – mostrano di avere capito più e meglio di tutti gli altri che nelle società post-industriali lavoro e cittadinanza non sono più sinonimi.
Peraltro, è curioso che accusarli di assistenzialismo per la proposta del reddito di cittadinanza siano gli stessi – destra e sinistra – che hanno riempito la Sicilia e la Calabria di forestali e hanno inventato in Campania la “truffa” dei lavoratori socialmente utili.
I Cinquestelle si dichiarano né di destra né di sinistra, ma di sinistra nel loro elettorato e pure in alcune delle loro proposte ce n’è parecchia. Per una sinistra che voglia provare a rinascere, allearcisi non è obbligatorio ma dialogarci sì, e dismettere almeno quell’aria di sufficiente disprezzo con cui fino a oggi li hanno guardati: probabilmente persino lì dentro si può trovare qualcuno dei mattoni – sociali, culturali – indispensabili all’impresa di ricostruire in Italia una sinistra credibile, adatta e utile alle sfide del terzo millennio.