Scampato pericolo. Il Front National trionfatore al primo turno delle elezioni regionali francesi, nei ballottaggi ha perso dappertutto, sopraffatto dalla desistenza dei socialisti nelle regioni dove aveva raccolto più consensi (Piccardia-Pas de Calais, Provenza-Costa Azzurra) e in generale da un soprassalto di “spirito repubblicano” che ha visto milioni di elettori mettere da parte le proprie identità e appartenenze – conservatori o progressisti – o la sfiducia che li aveva indotti ad astenersi, unendosi per sbarrare il passo al partito di Marine Le Pen.
È stato un bene? Certamente sì, se si guardano le caratteristiche politiche, il programma, il discorso del Front National, punta di diamante di quell’esercito arrembante di forze populiste europee – dalla Lega all’Ukp britannico, dal Pvv olandese al Fpoe austriaco, da Alba dorata in Grecia ai partiti populisti di Orban in Ungheria e di Kaczynski in Polonia – che al di là di differenze anche rilevanti (basti pensare all’iper-nazionalismo della Le Pen e invece alle origini secessioniste della Lega) si assomigliano tutti per la stessa miscela indigesta di “sovranismo” anti-europeo e xenofobia anti-immigrati.
Il populismo di destra in forte ascesa in quasi tutta Europa è certamente una minaccia, poiché nega in radice i princìpi di inclusione sociale e di apertura culturale su cui l’Europa ha costruito, pure in mezzo a difficoltà e incertezze, i settant’anni più felici della sua storia: settant’anni senza più guerre intestine, settant’anni di sviluppo economico, sociale e umano ininterrotto, settant’anni di un welfare e di uno standard di diritti civili senza pari nel mondo. Oggi però la costruzione europea è in crisi profonda, tra rischi sempre più concreti di un declino economico inarrestabile, allargamento rapidissimo delle diseguaglianze e delle esclusioni sociali, pressioni (immigrazione) e minacce (terrorismo) dall’esterno. Il successo crescente delle forze populiste di destra dà la misura ed è il risultato sia di questa crisi sia dell’incapacità della politica tradizionale, di destra e di sinistra, di fronteggiarla con scelte e con proposte credibili.
Ma è davvero la “union sacrée” il modo più saggio ed efficace per fermare la marea del populismo anti-europeo? Noi crediamo di no. Intanto questa risposta pone un immenso problema democratico: per effetto di alleanze esclusivamente elettorali e del tutto “innaturali” nonché di leggi elettorali “bipolariste” che non corrispondono più all’articolazione reale del consenso politico, esclude non solo dal governo ma talvolta dalla stessa rappresentanza partiti votati da molti milioni di elettori; com’è accaduto in Francia, dove alle ultime elezioni politiche il Front National ha ottenuto 3 milioni e mezzo di voti ma solo due seggi, o nel Regno Unito, dove l’Ukp ha conquistato un solo seggio pur totalizzando quasi 4 milioni di voti. Poi la logica della “union sacrée” – mettersi tutti insieme annullando le proprie differenze per arginare l’avanzata dei “barbari” – rischia di rafforzare esattamente i “barbari”.
Questa idea di allearsi tra destre e sinistre “moderate” per sconfiggere le forze populiste, parente stretta della tendenza che vede al governo in grandi Paesi europei – Germania, Italia – le “larghe intese” tra socialisti e centrodestra, è un’arma potenzialmente suicida. Suicida perché conferma uno dei principali e più popolari argomenti populisti: “noi rappresentiamo il popolo – dicono la Le Pen e Salvini – contro l’establishment, contro le élite che si spartiscono il potere da decenni badando solo ai propri interessi di casta”. Chiamare alla “union sacrée” contro costoro è come urlare: “hanno ragione, noi resistiamo con ogni mezzo pur di conservare il potere”. Se la politica tradizionale vuole veramente combattere il populismo, deve fare l’opposto di ciò che sta facendo: deve tornare a dividersi tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti sulle vie migliori per affrontare i problemi sociali, economici, geopolitici dell’Europa. E deve dividersi, se ci riesce, non su temi astratti e ormai datati – più Stato o più mercato, più spazio all’eguaglianza o al merito – ma sulle questioni che faranno davvero la differenza tra un’Europa che resta protagonista nel mondo globale puntando sulle sue vocazioni migliori, o che diventa irrimediabilmente periferia.
Nei giorni scorsi si è chiusa la Conferenza di Parigi sul clima, con un accordo di portata storica che impegna tutti i Paesi del mondo – Europa, Usa, Cina, India… – a riconvertire interamente dai fossili alle rinnovabili entro pochi decenni i propri sistemi energetici così da impedire che la temperatura terrestre aumenti oltre i 2 gradi centigradi, con costi ambientali, sociali, economici devastanti. D’ora in avanti la velocità con cui ogni Paese darà seguito a questa sfida non solo deciderà dell’efficacia nella lotta ai cambiamenti climatici, ma ridisegnerà i rapporti di forza anche economici tra le diverse aree geopolitiche, Europa compresa. Ecco, sarebbe bene che la politica europea, anche quella che affonda le sue radici nel Novecento e che finora sul tema ha camminato in ordine sparso e senza capacità di visione, cominciasse a litigare e a dividersi su come rispondere alla crisi climatica: se considerarla solo una minaccia ambientale più o meno urgente, o invece vederla come l’occasione per mettere l’Europa all’avanguardia di una rivoluzione energetica, tecnologica, industriale che può ridarle un ruolo di guida nel mondo. Da qui, molto di più che da improvvisati e fragilissimi fronti comuni contro le Le Pen e i Salvini di turno, possono arrivare risposte efficaci alla paura del futuro che spinge così tanti europei a credere alle ricette dei populisti. E peraltro, questo esempio e molti altri – atteggiamento verso l’immigrazione, idee sui diritti civili – mostrano che già oggi nella politica europea il confine tra progressisti e conservatori in tanti casi non ricalca più quello tra sinistra e destra: la cancelliera tedesca Merkel è decisamente più “progressista” del presidente francese Hollande sia sull’importanza della “green economy” sia sull’accoglienza ai migranti, il Pd di Renzi sui diritti civili è assai più “conservatore” della destra di Cameron…
Enrico Letta commentando i risultati del primo turno delle elezioni regionali francesi ha detto: “Un fonte dei partiti può essere controproducente. Se non si trovano valvole di sfogo e democrazie accoglienti, la Le Pen rischia di vincere le presidenziali”. Letta ha ragione: se Marine Le Pen o Salvini potessero scegliersi un avversario di comodo, è probabile che gli darebbero il volto di “Sarkhollande”.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante