C’è vita fuori dal dibattito sul referendum costituzionale del 4 dicembre.
Non fraintendeteci: il tema su cui si voterà è ovviamente di grande importanza per il nostro Paese. Ma la politica – quella del Sì come quella del No – da almeno sei mesi fa di tutto per convincere gli italiani che il loro futuro dipenda tutto da chi vincerà il 4 dicembre, e questa è una colossale stupidaggine.
Oltre il referendum, fuori dal referendum, c’è molto altro e ci sono questioni, scadenze ancora più importanti.
C’è, lo sappiamo perché tutti i media ne parlano, il voto americano, che fra poche ore dirà se Donald Trump, leader impresentabile oltre ogni limite, diventerà l’uomo più potente del mondo.
E c’è un altro appuntamento di cui invece almeno in Italia si parla pochissimo e che anch’esso deciderà del nostro futuro: la conferenza sul clima appena cominciata a Marrakech, in Marocco.
Lì i governi di tutto il mondo dovranno mettersi d’accordo su come dare concreta attuazione all’accordo di Parigi siglato un anno fa, che prevede di ridurre le emissioni di gas serra in una misura sufficiente a contenere l’aumento della temperatura terrestre – da qui al 2050 rispetto ai livelli pre-industriali – preferibilmente entro 1,5 gradi. Se il clima si riscalderà di oltre 2 gradi, le conseguenze per l’uomo – ambientali, economiche, sociali – saranno devastanti dicono gli scienziati dell’IPCC dell’Onu: sicuramente più devastanti di quelle di una vittoria del sì o del no nel referendum italiano.
Proprio dall’esito delle elezioni americane dipenderà molto delle possibilità di successo della conferenza di Marrakech. Trump considera i cambiamenti climatici – lo ha scritto in alcuni tweet – una “stronzata”, e recentemente ha dichiarato che se sarà presidente taglierà 100 miliardi di dollari sugli investimenti per arginare il “climate change” e le sue conseguenze, compresi i fondi a sostegno delle popolazioni americane direttamente investite dal problema (ricordate New Orleans devastata dall’uragano Katrina?).
Invece Hillary Clinton ha promesso un piano di investimenti in energia diffusa e rinnovabile da 60 miliardi di dollari – il “Clean Energy Challenge” -, che vedrebbe una stretta sinergia tra governo centrale con i singoli stati, le città metropolitane e le comunità rurali.
Ai risultati del Vertice di Marrakech guardano con preoccupazione le multinazionali “oil&gas”, che temono un’accelerazione nei ritmi di fuoriuscita dalla dipendenza dei sistemi energetici dal petrolio, e con speranza le migliaia di imprese in tutto il mondo che in questi anni hanno creato lavoro, ricchezza, miglioramento ambientale con le energie pulite. In Italia molte di quelle imprese si riuniscono proprio da oggi alla Fiera di Rimini per Ecomondo che, come ormai di consueto ospita gli Stati Generali della Green Economy. E i motivi di speranza non mancano: dalla Cina, il Paese che emette più gas serra di tutti, che sta investendo somme enormi sulle tecnologie energetiche “green”, a molti “giganti” dell’automobile (non quello che aveva origini italiane purtroppo) che scommettono sull’auto elettrica.
E l’Europa, che fa l’Europa? L’Unione europea – in coerenza con l’accordo di Parigi – dovrebbe ridurre le sue emissioni di almeno il 55% entro il 2030. Un obiettivo più ambizioso del target del 40% che si era fissato prima di Parigi, ma ugualmente raggiungibile. Secondo il Rapporto di “Ecofys” per il Parlamento europeo, solo con il raggiungimento congiunto degli obiettivi del 30% di rinnovabili e del 40% di efficienza energetica si realizzerebbe una riduzione delle emissioni climalteranti del 54%. Ma l’Europa, che fino a pochi anni fa spingeva più di tutti per politiche avanzate di mitigazione dei cambiamenti climatici, oggi balbetta, basti dire che molti Paesi dell’Unione non hanno ancora ratificato l’accordo di Parigi.
Guidare, anziché inseguire, le trasformazioni economiche e tecnologiche necessarie per salvare l’umanità dal collasso climatico sarebbe per l’Europa non solo un atto di responsabilità ma di virtuoso egoismo: perché tenere oggi la leadership di questa transizione già in atto significa ritrovarsi domani protagonisti nel mondo e nell’economia globali.
Da questo punto di vista sarebbe bello che l’Italia, come pretende giustamente dall’Europa più coraggio e più solidarietà sul problema dei profughi in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente, così alzi la voce anche sul tema dei cambiamenti climatici. Certo, è difficile aspettarselo da un paese la cui classe dirigente è così ortogonale a questi temi, in cui i giornali e gli intellettuali (si veda articolo del 6 novembre di Paolo Mieli sul Corriere) parlano di “climate change” dimostrando grande ignoranza scientifica sul tema, da un governo che per mesi ha raccontato che il nostro futuro sono le trivellazioni petrolifere, che non smette di mostrarsi ostile con le fonti rinnovabili, che sull’efficienza – a parte il benemerito bonus fiscale sulle ristrutturazioni edilizie – e l’economia circolare mette i bastoni tra le ruote alle imprese che vogliono investire nel settore e che adesso sembra credere che il bene e il male – in questo caso non per gli umani ma solo per gli italiani – nascano o muoiano nelle urne del 4 dicembre.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante