Il plebiscito elettorale per il Pd è senza dubbio un fatto storico: partito più votato in Europa (un milione di voti più dei popolari della Merkel), partito italiano che ha ottenuto la percentuale più alta in tutte le elezioni degli ultimi cinquant’anni.
Che questo clamoroso trionfo si legga di più o di meno come un dato irripetibile, gonfiato dai molti voti centristi e anche di destra confluiti sui Democratici per la “grande paura” di un successo di Grillo, comunque restano un fatto certo e una domanda difficile. Il fatto è che i 3 milioni di voti guadagnati dal Pd dalle elezioni politiche di un anno fa (guadagnati nonostante un calo significativo dei votanti, da oltre 35 milioni a meno di 28) dipendono in larghissima misura dall’avvento di Matteo Renzi alla guida del Partito democratico e poi del governo.
Renzi in pochi mesi ha risposto in modo brillante, convincente, inequivocabile alla domanda di rinnovamento e ringiovanimento del ceto politico che viene non solo dagli elettori tradizionali del Pd, ma anche da molti italiani ai quali la parola “sinistra” non dice niente e da altri per i quali è più o meno una parolaccia.
La radicalità del cambio di classe dirigente realizzato da Renzi nel suo partito è clamorosa: immortalata nella foto di gruppo dei dirigenti Pd che festeggiavano la vittoria nella sede del partito – a eccezione di qualche “intruso” tipo Fassina o Stumpo, solo sei mesi fa nessuno di loro era in “prima fila” -, fissata nei nomi degli eletti democratici più votati al Paramento europeo.
L’investitura renziana di cinque giovani donne scelte come capilista nelle cinque circoscrizioni elettorali ha avuto effetti dirompenti: candidate a molti sconosciute come Alessia Mosca, Alessandra Moretti, Simona Bonafé, Pina Picierno hanno ottenuto valanghe di preferenze personali lasciandosi dietro vecchie volpi della politica da Cofferati a Zanonato, da Cozzolino a Bettini.
Questa rivoluzione ha offerto di Matteo Renzi un’immagine indelebile di “uomo del futuro”, forse ancora più popolare e accattivante degli 80 euro al mese in più in busta paga per milioni di italiani.
La domanda difficile invece è questa: può esserci vita fuori da questo sconfinato Pd? Detta meglio: il Pd nella versione renziana assorbe tutto lo spazio dell’innovazione culturale e politica?
Noi pensiamo di no. Lo pensavamo prima delle elezioni, ed è stata la ragione per cui dopo quasi dieci anni di assenza di simboli ecologisti dalle schede elettorali italianeinsieme a Monica Frassoni, presidente del Partito Verde Europeo e insieme a molti altri abbiamo proposto la lista “Green Italia Verdi Europei”, espressione italiana di una forza già stabilmente radicata in molti Paesi europei. Lo pensiamo ancora. Lo pensavamo e lo pensiamo perché nel Pd, anche nel Pd di Renzi, la consapevolezza per noi essenziale che nell’ecologia sia oggi una chiave irrinunciabile per dare senso e futuro alle parole progresso e sviluppo, semplicemente non c’è. Non c’è nei comportamenti del Pd di governo, da Roma alle regioni alle grandi città, e non c’è nemmeno nella narrazione di Renzi: straordinariamente innovativa nel linguaggio e nella capacità di aggredire almeno a parole alcuni nodi gordiani delle arretratezze italiane – uno Stato pesante e inefficiente, un’organizzazione sociale che sistematicamente scoraggia il merito e la creatività in particolare dei giovani -, ma assai più conservatrice nella concreta visione di ciò che serve per uscire davvero dalla crisi di questi anni e per trovare la via di uno sviluppo sostenibile e duraturo.
Esempi? Nelle città dove governa, il Pd è incapace di imprimere svolte vere alle politiche della mobilità e dello sviluppo urbano, passando dall’ideologia dell’automobile e del nuovo cemento (spesso condita di rapporti opachi con grandi poterei economici) a scelte che diano priorità al trasporto su ferro e alla riqualificazione urbana. Ancora: nel governo Renzi come in quelli Berlusconi, Monti, Letta le politiche dell’energia continuano a inseguire il rilancio delle fonti fossili (trivellazioni, centrali a carbone) anziché puntare sull’efficienza e sulle rinnovabili, e le politiche industriali insistono a difendere l’indifendibile (Ilva, Sulcis) invece di sostenere l’innovazione che rende più “green” e anche più competitive le produzioni. Renzi sembra credere, come i suoi predecessori, che per rimettere in carreggiata l’economia italiana, per affrontare il dramma della disoccupazione a due cifre (e quasi al 50% tra i giovani), basta trovare un bel po’ di risorse pubbliche e rendere più flessibili le regole sul lavoro. Noi no: noi per esempio crediamo che se la logica degli investimenti pubblici continua a essere quella delle opere inutili o dannose (vedi le autostrade pretestuosamente “connesse” all’Expo o la Torino-Lione), il vantaggio sociale non c’è e ci guadagnano, più o meno lecitamente, solo poche aziende mangia-appalti. Noi nemmeno crediamo che facilitare l’uscita dal mercato del lavoro, continuare ad esercitarsi solo sulle “forme” del lavoro il più delle volte a scapito dei diritti, possa creare stabile e dignitosa occupazione.
Invece è proprio di una svolta verde che l’Italia, la società e l’economia italiane, avrebbero un bisogno speciale. Ne abbiamo bisogno non solo per fare la nostra parte di fronte all’impatto crescente dei cambiamenti climatici, ma per affrontare alla radice grandi problemi squisitamente italiani: dissesto del suolo, strapotere delle ecomafie, abusivismo edilizio, inquinamento urbano a livelli record. Di più, ne abbiamo bisogno perché beneficeremmo moltissimo di una radicale cambio di passo nelle politiche per lo sviluppo incardinato su “green new deal” e “green economy”. Se è green l’economia che produce benessere e prosperità senza intaccare il capitale naturale, allora si può dire che l’Italia l’economia verde l’ha inventata, l’ha praticata con successo, prima di tutti gli altri: è la green economy che da secoli produce ricchezza utilizzando come materie prime la bellezza, la creatività, la convivialità, la qualità urbana, il legame sociale e culturale tra economia e territorio. Materie prime immateriali, che non consumano natura e non inquinano; talenti dei quali abbondiamo e che oggi sono la nostra arma migliore, forse l’unica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi di declino.
Sì, noi pensiamo che ci sia vita fuori da questo Pd mangia-tutto. Con noi l’hanno creduto 250 mila “coraggiosi” che votando “Green Italia Verdi Europei” hanno resistito quasi eroicamente al richiamo ossessivo del “voto utile”. 250 mila voti sono un cinquantesimo di quelli presi dal Pd: per noi però valgono molto, anche perché li abbiamo ottenuti nel silenzio pressoché totale di gran parte dei media e spendendo per la campagna elettorale poco più di 30 mila euro.
Da qui ripartiamo: venerdì e sabato decideremo modi e tempi di primarie nelle quali entro fine anno chiunque creda nel nostro progetto potrà sceglierne la leadership. Ripartiamo con un obiettivo semplice e ambizioso: smentire con i fatti la profezia di quanti dicono che l’Italia “non è un Paese per Verdi”.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante