Articolo su Europa quotidiano.it
5 dicembre 1993, vent’anni fa. Nel ballottaggio della prima elezione diretta del sindaco di Roma, Francesco Rutelli batte Gianfranco Fini 53 a 47 per cento. Fu quello, più ancora della nascita di Forza Italia, il vero atto di fondazione del bipolarismo italiano: sinistra contro destra in un confronto politico ed elettorale incerto e aspro, senza possibilità di pareggi o di “inciuci”; confronto che per settimane appassionò e divise l’opinione pubblica ben al di là della vicenda amministrativa romana.
Peraltro, tra le elezioni romane del ’93 e l’avvento del berlusconismo corse un filo solidissimo: l’esordio formale di Forza Italia è del gennaio 1994, ma la “discesa in campo” di Berlusconi cominciò due mesi prima quando l’allora presidente Fininvest, durante l’inaugurazione di un ipermercato a Casalecchio di Reno, dichiarò che i “moderati” nelle elezioni romane non avrebbero potuto scegliere che Fini.
Il voto romano cadde nel pieno del terremoto di Tangentopoli, che stava mettendo fine a storie politiche centenarie, e anche per questo ebbe come protagonisti due inediti outsider: Fini, segretario di un partito – il Movimento sociale italiano – di matrice neo-fascista che per quarant’anni era stato considerato quasi da tutti come un “paria” politico; e Rutelli, leader dei Verdi con un recente passato di Radicale: un “extraterrestre” rispetto alla storia della sinistra italiana.
Una prima osservazione obbligata, vent’anni dopo quel 5 dicembre, riguarda proprio l’itinerario personale dei due sfidanti di allora. Fini, che archiviata non senza strappi coraggiosi l’eredità neo-fascista e poi divincolatosi dall’alleanza con Berlusconi ha tentato senza successo di dare vita in Italia a una “destra repubblicana” di stampo europeo, libera dall’attuale ipoteca populista e plebiscitaria. Rutelli, che dopo aver “cofondato” il Partito democratico, l’ha abbandonato (ed è uscito anche lui di scena) accusando la sua “creatura” di una deriva da “vetero-sinistra” che ne tradiva del tutto l’ambizione originaria.
I due primi architetti del bipolarismo italiano, dunque, sono stati tra le sue vittime più autorevoli, e questo induce ad una seconda riflessione. Destra e sinistra, in questi vent’anni, sono rimaste inchiodate al loro Novecento: inchiodate ai caratteri peculiari, e sicuramente a molti dei limiti, che ne hanno segnato la vicenda storica.
Non è un problema solo di classi dirigenti inadeguate, generazionalmente e culturalmente datate; non è solo un problema di “eletti” ma anche di “elettori”. Se abbiamo una destra e una sinistra così poco europee è in buona parte perché gli “zoccoli duri” dei rispettivi elettorati esprimono tuttora sensibilità e orientamenti per più di un aspetto diversi da quelli degli elettori di destra e di sinistra francesi, inglesi, tedeschi; diversi, anche, dalla sensibilità dell’elettorato italiano più giovane e meno ideologizzato, di coloro che votano decidendo di volta in volta e non per appartenenza e che, non per caso, votano sempre meno (o magari votano Grillo).
Destra e sinistra nell’Italia della seconda repubblica sono rimaste largamente prigioniere delle loro rispettive storie: la destra segnata da un’impronta qualunquista, populista e anti-legalitaria, la sinistra fino a oggi governata da gruppi dirigenti in maggioranza formatisi nell’unico Partito comunista d’Occidente maggioritario tra i “progressisti” del proprio paese.
Ecco allora: il tramonto repentino di Fini e Rutelli come leader politici nasce certamente da loro errori, ma è anche un sintomo dell’estrema difficoltà di rendere contemporanee e un po’ più europee la destra e la sinistra italiane.
Questo, davvero, è il lascito più negativo della ventennale presenza sulla scena politica italiana di uno straordinario, incontrastato mattatore come Berlusconi, più negativo persino dei tanti danni diretti del berlusconismo: avere “immobilizzato” l’intero sistema politico, avere di fatto inibito il rinnovamento, l’evoluzione sia della destra che della sinistra.
Un lascito che ha impedito, quando ha governato la destra, di dare il minimo avvio alla “rivoluzione liberale” pure da essa sbandierata come orizzonte programmatico e identitario; e quando ha governato la sinistra, di dare risposta e rappresentanza a valori, bisogni, interessi – un welfare delle pari opportunità per tutti più che delle tutele riservate a una ristretta platea di “garantiti”, l’ecologia come nuova frontiera dello sviluppo possibile e desiderabile – che in tutta Europa vanno ridisegnando il profilo e la proposta delle forze progressiste.
Il declino dell’Italia è anche qui: nella mancanza di una destra e di una sinistra che facciamo decentemente il loro mestiere.
Sempre vent’anni fa, sempre all’alba del ventennio bipolarista, Norberto Bobbio pubblicava il suo saggio Destra e sinistra. Per Bobbio la distinzione tra destra e sinistra resta attuale: la destra non ama l’uguaglianza, è conservatrice, guarda più agli interessi che ai valori; la sinistra ha una vocazione egualitaria, persegue il cambiamento, dà grande importanza agli ideali.
Norberto Bobbio non c’è più, forse anche lui faticherebbe oggi a trovare tracce significative della sua distinzione nella destra e nella sinistra italiane, accomunate da un formidabile istinto conservatore.
Il punto è che per avere ancora senso e futuro, destra e sinistra devono nutrirsi sì delle loro diversità, ma pure della realtà che cambia, delle domande sociali che evolvono e si trasformano. Sennò il rischio è che finiscano per assomigliare, più che al saggio di Bobbio, alla canzone del grande Gaber, divise da differenze tutte da ridere.