Posts by: Roberto Della Seta

Manca una vera politica verde. Via dal PD, nasce “Italia Green”

Daniela Preziosi per “Il Manifesto”

Si chiamerà Green Italia il nuovo soggetto ambientalista. Primo appuntamento, il 28 giugno all’Auditorium del Maxxi a Roma. Lo annuncia Roberto Della Seta, già presidente di Legambiente, fondatore e senatore del Pd, oggi fuori dal partito per una brutta storia: a chiedere la sua testa sono stati i Riva, si apprende dalle intercettazioni dell’inchiesta di Taranto.

Della Seta è anche autore con Edoardo Zanchini di “La sinistra e la città” (Donzelli), saggio bello, inclemente e anche autocritico. Lui premette: «Crediamo che in Italia ci sia uno spazio di valori, bisogni e interessi legati all’ambiente che oggi non hanno una rappresentanza politica. I valori sono quelli legati ai beni comuni, emersi coni referendum del 2011 (Della Seta fu fra i pochi del Pd a sostenerli dalla prima ora, ndr); I bisogni sono quelli emersi per esempio dalla vicenda di Taranto, per cui gli italiani oggi non accettano più scambi fra lavoro e salute. Gli interessi sono quelli del mondo della green economy».

Pd, Sel, verdi. A naso per un elettore ambientalista l’offerta politica c’è. Non crede?

No. Esclusa la destra, escluso, purtroppo, il Pd, né Sel né M5S, quando si arriva alla stretta, fanno dell’ambiente il tema che li qualifica. Quindi noi…

Noi chi? Chi siete?

Ecologisti ex Pd come Ferrante e Ronchi. La copresidente dei verdi europei Monica Frassoni, ex capolista di Sel. Persone che vengono dalle associazioni, come la direttrice di Legambiente Rossella Muroni, il vicepresidente Zanchini e l’ex presidente del WWF Stefano Leoni. Dicevo: noi abbiamo valutato che c’è una domanda di rappresentanza a cui non risponde né la politica tradizionale né i Verdi italiani, che non sono stati in grado di svolgere il ruolo che i verdi in Europa svolgono.

Fondate un nuovo partito?

L’obiettivo è presentare una lista alle prossime europee. Se per partito intende una struttura solida e circoscritta, no: per ora restiamo un’iniziativa liquida, aperta, speriamo che presto si arricchisca di nuovi contributi.

Un lista di sinistra o di destra?

Una lista che ha per riferimento i verdi europei, collocata dalla parte dei progressisti ma distinta dalle tradizioni della sinistra europea.

Lei è uscito dal Pd, dove sono rimasti ambientalisti a lei vicini, come Ermete Realacci. Sbagliano a restare in quel partito?

Il Pd ha ancora ambientalisti autorevoli, come Ermete, ma i temi ambientali non sono un carattere distintivo di quel partito. Se la nostra iniziativa avrà un po’ di successo sarà utile ad accelerare l’evoluzione degli altri partiti, a iniziare dal Pd. Del resto in Europa il partito socialista più sensibile alle questioni ambientali è l’Spd anche perché i Grunen tedeschi sono competitivi e prendono molti voti.

Che differenza ci sarà fra Green Italia, Pd e Sel su temi come l’Ilva di Taranto?

Sel, al di là della parola “‘ecologia” nel nome, non ha fatto dell’ecologia il suo tema distintivo. E infatti gli ecologisti di Sel vivono qualche disagio, visto che Sel ha chiesto di aderire al partito socialista europeo. Sull’Ilva credo innanzitutto che la sinistra debba chiedere scusa ai tarantini e agli italiani. Se è arrivata a questo punto la colpa è di chi ha governato quella città e l’Italia lasciando che la vicenda incancrenisse. Ho cominciato a lavorare a Legambiente negli anni ’80, già allora sfornavamo dossier sull’inquinamento dell’Ilva. I dati ci sono da decenni, ma anche la sinistra li ha ignorati e anzi ha intrattenuto rapporti incestuosi con la famiglia Riva. Oggi l’unica strada è toglierne il controllo dai Riva.

Guardi che la pensa come Vendola.

Che però non da sempre la pensa così.

Secondo i parametri Italia Green questo governo è a norma?

No, il governo finora dimostra di non capire che per far uscire l’Italia dalla crisi serve in larghissima misura l’economia verde.

Lascia il Pd alla vigilia di un congresso cruciale? Lei era schierato con Renzi, che oggi è il pole position per essere il prossimo premier, forse anche il prossimo leader Pd.

La possibilità che il Pd diventi un partito anche ecologista oggi è tramontata. Ma non sono disinteressato al Pd. Mi auguro che riesca a rinnovarsi, non solo ad avere un segretario più giovane. Ma ora ci vuole una nostra presenza autonoma. Lo dico per esperienza: le altre strade hanno tempi troppo lenti rispetto all’urgenza dei problemi ambientali.

La sinistra radicale è divisa in tanti riveli, e rischia l’inefficacia. Non rischia di finire così anche l’area ambientalista?

Il rischio c’è. La sinistra italiana è un cantiere aperto da 25 anni. Noi ci collochiamo altrove rispetto a questo cantiere. Pensiamo che sia arrivato il momento di affiancare il dibattito italiano a quello europeo. In Europa i temi ambientali sono al centro dei confronti anche elettorali grazie alle forze autonome che li rappresentano.Presto sarà così anche in Italia.

Lavoro, basta la parola?

Articolo su Huffington Post

Lavoro, lavoro, lavoro. Tutti sembrano d’accordo: il lavoro che manca, le migliaia di aziende in difficoltà costrette a licenziare, i tassi stratosferici di disoccupazione giovanile (40%), sono il problema più urgente e doloroso dell’Italia, il segno più acuto e drammatico di questa crisi interminabile.

Tutti sembrano d’accordo ma molti, troppi, affrontano il tema e propongono soluzioni considerando solo le “forme” del lavoro. Da una parte, i liberisti più o meno improvvisati di casa nostra hanno teorizzato per anni che l’economia italiana era ferma per colpa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: salvo scoprire, una volta che il “laccio” è stato allentato dal governo Monti, che ciò non ha aiutato di una virgola a ritrovare la via del lavoro. Dall’altra parte, quasi tutta la sinistra sindacale ripete da mesi che l’urgenza principale in Italia è cancellare la legge Fornero, come se prima vivessimo nell’Eldorado e non in una crisi identica a quella attuale.

Forse bisognerebbe cambiare punto di vista, magari lasciando da parte le dispute ideologiche novecentesche – mitologia della flessibilità senza limiti contro idolatria del posto fisso a vita – e partendo da ciò che accade qui ed ora, dentro la crisi e in mezzo al XXI secolo. Per esempio, per affrontare con occhi contemporanei il dramma della perdita di lavoro converrebbe dare un’occhiata a quello che è successo a Pratolongo, provincia di Padova: qui è nata una nuova fabbrica di frigoriferi, e a realizzarla – si pensi un po’… – è stato il principale produttore cinese di elettrodomestici. Proprio così: i terribili cinesi, quelli che secondo tanti cancelleranno in breve tempo l’industria manifatturiera italiana, hanno scelto il nostro nord-est per fabbricare i frigoriferi con cui dare l’assalto ai mercati europei. Lo hanno fatto malgrado il costo della manodopera tre o quattro volte superiore a quello di casa loro, malgrado le rigidità della legislazione italiana sul lavoro; lo hanno fatto perché pensano che il talento, l’inventiva del lavoro italiano siano i più adatti ad imporre i loro prodotti tra i consumatori europei.

In pochi si sono fermati su questo o su altri episodi analoghi, come in pochissimi si sono accorti di un altro dato interessante: buona parte di manifatturiero italiano di qualità che malgrado la crisi è riuscito in questi anni a difendere o persino ad aumentare il proprio export, è fatta da imprese che hanno investito in innovazione “green”, cioè nel miglioramento ambientale di prodotti e processi.

Certo in questo come in ogni campo dell’organizzazione sociale le “forme” sono importanti. Così, nessuno può negare che il nostro mercato del lavoro sia oppresso da ingessature insopportabili e soprattutto dal peso di un costo del lavoro astronomico, e nessuno dovrebbe negare (alcuni lo fanno) che vi sono diritti dei lavoratori – a cominciare dal diritto di scegliersi il sindacato che vogliono… – semplicemente indisponibili. Ma per fermare il declino competitivo e occupazionale dell’industria italiana servono, in primo luogo e per l’appunto, politiche industriali. E allora se il Presidente del consiglio Letta, come ha detto recentemente alla platea confindustriale, si pone l’obiettivo di portare il peso dell’industria dal 18% al 20% del Pil, deve dire attraverso quali azioni ritiene di centrare un traguardo così ambizioso.

Si prenda l’energia. Per abbattere i costi della bolletta elettrica delle piccole e medie imprese che soffrono di un gap eccessivo nei confronti dei loro competitori stranieri, si vuole continuare a difendere gli interessi dei grandi gruppi “fossili”, o come ha fatto con coraggio la Germania e stanno facendo gli Usa di Obama si deciderà di puntare su efficienza e rinnovabili, e sul gas come energia di transizione rinunciando invece al carbone? La Germania e ora anche gli Stati Uniti grazie a questa scelta fanno nascere molti nuovi posti di lavoro e accrescono di molto la loro autonomia energetica: l’Italia pensa di imitarli?

Sulla chimica: si continuano a rinviare all’infinito le bonifiche dei siti industriali dismessi, lasciando sul terreno, letteralmente, veleni di ogni sorta, o si punta sulla chimica verde, settore nel quale l’Italia già può vantare posizioni di leadership mondiale e che, se adeguatamente sostenuto, può consentire la creazione di lavoro efficiente e duraturo?

Ancora. Sui rifiuti si vuole davvero smantellare l’orrenda pubblicità dell’emergenza spazzatura di Napoli o di Palermo o di Roma e scommettere sulle tecnologie per massimizzare il recupero di materia, decisive per un Paese come il nostro a vocazione manifatturiera ma povero di materie prime?

L’elenco potrebbe continuare a lungo: è di questo che si parla quando si dice “green economy”; si parla di lavoro, non solo di ambiente. Un cammino così è la via maestra per portare l’Italia fuori dal tunnel della crisi, ma una via che richiede decisioni chiare e nette. Sarà in grado di prenderle un questo Governo di “larghe intese” dove dentro c’è di tutto? E sapranno sostenerle i rappresentanti degli imprenditori italiani, quella Confindustria che quando l’Europa varò il pacchetto “20-20-20” per promuovere l’innovazione energetica e combattere i cambiamenti climatici – sfida decisiva anche per rilanciare le nostre economie – si attardò in una guerra di resistenza perdente e retrograda?

ILVA, la sinistra che ha rinnegato sè stessa

Articolo su Huffington Post

Per decenni la sinistra a Taranto ha preferito intrattenere rapporti opachi, spesso illegittimi, con i padroni dell’Ilva, lasciando che avvelenassero impunemente la città, piuttosto che difendere la salute dei tarantini: insomma ha rinnegato se stessa.

Questa in due parole è la lezione che si può trarre dall’ultimo episodio giudiziario della “telenovela” Ilva, con l”arresto del presidente della provincia di Taranto Giovanni Florido. Diranno i giudici su eventuali responsabilità personali di Florido, ma alcuni fatti già parlano da soli: quando come a Taranto esponenti politici di ogni parte e colore brigano di nascosto per consentire a imprenditori infedeli come i Riva di infischiarsene delle leggi, quando volutamente e sistematicamente cercano di stendere il silenzio sugli allarmi e le denunce che da oltre un quarto di secolo (i primi dossier di Legambiente sono degli anni Ottanta) dicono la verità su questa vera e propria ‘fabbrica dei veleni’, allora una politica così perde ogni titolo e ogni diritto ad essere creduta e seguita.

Per un tempo lunghissimo, mentre solo gli ambientalisti e qualche gruppo spontaneo di cittadini gridavano le ragioni del “popolo inquinato” di Taranto, diffondevano i dati terribili sull’impatto dell’Ilva, mettevano sotto accusa i Riva che non hanno speso né una lira né un euro per risanare l’impianto, ammonivano che mettere lavoro contro ambiente era una scelta senza senso e senza futuro, gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: per prima l’azienda, poi la politica con rare eccezioni e infine lo stesso sindacato, terribilmente lento e pigro nel capire che senza una vera svolta il destino industriale dell’Ilva e quello occupazionale dei suoi lavoratori erano segnati.

Questa lunghissima stagione di irresponsabilità e di reticenza ha trasformato il caso dell’Ilva in un maledetto rompicapo. Chiudere adesso l’Ilva sarebbe una follia. Sarebbe, com’è ovvio, una follia sociale. Ma sarebbe un errore, un errore probabilmente irreparabile, anche sul piano ambientale. Ilva infatti non è solo una fabbrica che per troppo tempo ha avvelenato l’aria, l’acqua, la terra; è anche il cuore di un’immensa area da bonificare dopo decenni di intossicazione industriale, e molti casi analoghi dimostrano che se un territorio così rimane “orfano” di chi così l’ha ridotto, e perciò ha l’obbligo morale e giuridico di risanarlo, insieme al lavoro scompare anche la possibilità di una vera bonifica.

Per ricomporre il puzzle c’è probabilmente un unico modo: togliere ai Riva il controllo e la gestione dello stabilimento e al tempo stesso costringerli con tutti i mezzi legali a disposizione a pagare per il risanamento e la bonifica.

Ma la vicenda dell’Ilva si presta anche a una riflessione più generale. Quando mesi fa i giudici misero i sigilli alla fabbrica, qualche commentatore osservò che in una fase come l’attuale di acuta crisi economica la difesa del lavoro debba avere la meglio su tutto, salute compresa. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi.

Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come in qualunque altra città, non è più disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio.

Per l’industria italiana, puntare sull’eccellenza ambientale non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi; è l’unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l’automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale né il sindacato l’hanno davvero capito: c’è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

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