Matteo Richetti in un intervento ospitato nei giorni scorsi su Huffington Post spiega che le opere pubbliche sono importanti per l’Italia, che sarebbe folle rinunciare a realizzarle per il rischio-corruzione, che si deve utilizzare l’occasione dell’inchiesta della Procura di Firenze per mettere ordine e pulizia nella “governance” delle grandi opere.
Tutto giustissimo, impossibile dissentire. Ma Richetti dimentica, o forse ignora, un aspetto essenziale: l’intreccio endemico tra decisione pubblica e interessi corruttivi che ha inquinato in modo così profondo il settore delle grandi opere pubbliche, non è separabile dal merito di molte scelte compiute in questo campo. Insomma: troppo spesso le ragioni per cui lo Stato ha deciso di realizzare una o l’altra grande infrastruttura, avevano pochissimo a che fare con l’utilità pubblica e moltissimo con la possibilità di lautissime commesse per i corruttori e di larghe prebende per i corrotti. Dal Mose alle strade dell’Expo, per restare ai casi più recenti, gli esempi di questo circolo vizioso abbondano.
Ma Richetti dimentica un’altra banale verità. Non è vero che l’Italia spende poco in opere pubbliche. Invece spende molto ma spende male: destinando tanti più soldi del necessario per opere il cui costo dall’inizio dei lavori è lievitato anche di due o tre volte; regalando montagne di quattrini a lobby potenti (14 miliardi ai “signori delle autostrade” con la proroga delle concessioni autostradali voluta dal governo Renzi e in particolare dall’ex-ministro Lupi); finanziando in modo più o meno diretto la realizzazione di grandi opere palesemente inutili come l’autostrada Bre.Be.Mi., doppione della Milano-Venezia su cui transitano ogni giorno 10 mila auto contro le 80 mila “garantite” dai costruttori.
Il Governo Renzi su questa materia tutto ha fatto tranne che “cambiare verso”. Basta dare un’occhiata al decreto cosiddetto “Sblocca-Italia”. Come scrive Anna Donati nel libro collettivo “Rottama Italia”, curato da Tomaso Montanari e appena pubblicato da Altra Economia, dei 3,9 miliardi stanziati da qui al 2020 per le grandi opere, quasi metà va per strade e autostrade, il 25% per l’alta velocità e meno del 10% per reti tramviarie e metropolitane. Eppure basta confrontare la situazione italiana con quella dei grandi Paesi europei per vedere che in tema di mobilità il nostro vero deficit infrastrutturale riguarda le città e le aree urbane. Ogni giorno si spostano sui treni dell’alta velocità 130 mila passeggeri, contro 3 milioni di pendolari che utilizzano i treni locali: ma mentre si stanziano miliardi per opere di assai dubbia utilità come il tunnel Torino-Lione, negli ultimi anni – come ha denunciato di recente Legambiente – lo Stato ha tagliato di un quarto le risorse per il trasporto locale.
Allora se si vuole davvero mettere a frutto la lezione che arriva dai tanti scandali sulla corruzione nelle grandi opere, serve ripartire dall’inizio. In un appello promosso da Green Italia che vede come prima firmataria la presidente dei Verdi europei Monica Frassoni ed è sottoscritto da ecologisti, politici, tecnici e intellettuali – “E’ finito il tempo delle mele (marce), si apra la stagione delle opere utili, legali e sostenibili” (si può firmare su www.greenitalia.org) – sono indicati quattro obiettivi urgenti e irrinunciabili: – stabilire, anche sul piano delle scelte di investimento, che la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio sono la prima “grande opera” necessaria all’Italia e agli italiani; – varare un Piano dei trasporti che fissi le priorità – una su tutte, puntare con decisione sul potenziamento del trasporto pubblico urbano e di quello ferroviario locale che sono oggi in condizioni pietose; – togliere di mezzo la “Legge Obiettivo”, che ha introdotto per le grandi opere un regime “di eccezione” a base di deroghe alle norme ordinarie dal quale i soli ad avvantaggiarsi sono stati i corrotti, e stabilire regole certe e univoche che mettano molta più trasparenza e anche più concorrenza nelle procedure autorizzative e di appalto; – riconsiderare scelte costosissime e di assai dubbia utilità pubblica, a cominciare dal tunnel Torino-Lione.
Nel rapporto tra grandi opere e corruzione il problema non sono singole “mele marce”: marcio è tutto il “cesto”, solo cambiandolo si potrà, citiamo Richetti, cancellare l’idea “che la realizzazione di opere pubbliche è pericolosa perché contiene in maniera intrinseca il fenomeno della corruzione”.