L’alluvione in Sardegna, più esattamente le sue tragiche conseguenze, hanno tanto a che fare con le larghe intese. Non dite “che c’entra?”, perché c’entra eccome. Le larghe, larghissime intese contro il territorio sono quelle della politica di destra e di sinistra e anche di buona parte della stampa: di tutti coloro, insomma, che oggi versano lacrime di coccodrillo per i morti di Olbia, di Arzachena, di Torpé, di Uras, che fino a ieri tagliavano i fondi per prevenire o limitare i danni di queste emergenze, che da domani, temiamo, ricominceranno a ignorare (i media, tranne rare mosche bianche da Giovanni Valentini a Gian Antonio Stella a Ferruccio Sansa) o a favorire (la politica bipartisan) il totale dissesto del suolo italiano aspettando la prossima “Sardegna”.
Questo film già visto infinite volte è così sempre uguale a se stesso da far suonare rituali, quasi accademiche anche le parole di chi – qualche politica e giornalista “atipico”, geologi e meteorologi, noi ecologisti – non ha mai smesso di denunciare l’Italia colabrodo.
Malgrado tutto però noi insistiamo, cominciando da alcuni numeri. E’ vero: in poche ore sull’Ogliastra e sul Nuorese è caduta tanta pioggia quanta in genere ne arriva in un anno: più o meno 400 millimetri. Ma non è la prima volta che succede. Come ha ricordato il meteorologo Luca Mercalli, soltanto negli ultimi dieci anni è capitato in altre due occasioni, 2008 e 2004; andò ancora peggio nell’ottobre 1951: in 4 giorni caddero sull’Ogliastra 1400 millimetri d’acqua.
Dunque il nubifragio di lunedì è stato sì un fenomeno eccezionale, probabilmente inasprito dai cambiamenti climatici globali che stanno investendo il Mediterraneo. Ma non è stato un fenomeno inedito.
Che si può fare per minimizzare i danni di eventi come questo? Si può, si deve rendere più efficace il “pronto soccorso” della protezione civile, che oggi funziona bene nel suo snodo centrale di allertamento e coordinamento ma troppo spesso perde rapidità ed efficienza quanto più ci si allontana da Roma e ci si avvicina ai luoghi fisici, concreti dove c’è da gestire un’emergenza improvvisa e grave.
E poi si deve fare il contrario di ciò che in buona parte d’Italia si fa da decenni: consumo sconsiderato del suolo, cemento dappertutto comprese le zone dove non si dovrebbe costruire un metro cubo come le fasce golenali di fiumi e torrenti, abusivismo edilizio tollerato e spesso incoraggiato a forza di condoni, scarsi investimenti nella messa in sicurezza e nella manutenzione ordinaria del territorio. Pochi dati per rendere l’idea: in Italia la quota di territorio con copertura artificiale è pari al 7,3% del totale, contro il 4,3% della media Ue e contro il 6,4% del dato atteso in relazione alla nostra densità demografica; tra il 2001 e il 2011 il suolo consumato è cresciuto dell’8,8%, il che equivale a una perdita di oltre 40 ettari di suolo naturale al giorno. Tutta la politica per questa deriva ha colpe gravi.
Certo la destra ne ha di più: sono suoi gli ultimi due condoni edilizi generalizzati – 1994 e 2003 – che hanno favorito la cementificazione illegale del suolo; è suo, recentissimo, il tentativo dei parlamentari campani del Pdl (senza distinzione tra “falchi” e “colombe”…) di imporre una nuova sanatoria, questa volta “ad regionem”; e ancora è stata sua – dell’attuale amministrazione regionale sarda, guidata dall’ex-commercialista di Berlusconi Ugo Cappellacci – l’azione sistematica rivolta a smantellare il piano paesistico varato dalla giunta Soru che per la prima volta introdusse il divieto a tirare su altro cemento lungo le coste. L’incultura ambientale della destra italiana è talmente radicata da sconfinare spesso nel ridicolo: come quando quattro anni fa l’allora maggioranza Pdl-Lega in Senato approvò una risoluzione dove c’era scritto che i cambiamenti climatici sono un’invenzione degli ecologisti.
La nostra destra è così, ma la sinistra? Anche da questa parte i buchi neri non mancano. La vocazione a consumare suolo senza limiti, infischiandone non solo del paesaggio ma della stessa sicurezza dei cittadini, non è un esclusiva berlusconiana: basta citare l’esempio negativo della Liguria, regione “rossa” che periodicamente paga prezzi altissimi – con nubifragi di stagione che uccidono e distruggono come fossero uragani – a scelte urbanistiche e di sviluppo territoriale da lungo tempo votate unicamente al “dio-cemento”.
Discorso analogo va fatto per l’erosione continua dei fondi, già pochi in origine, destinati alla difesa del suolo. A fronte di un costo complessivo per la messa in sicurezza del nostro territorio stimato in circa 40 miliardi, tutti gli ultimi governi – da Berlusconi a Monti a Letta – hanno previsto per questo scopo risorse irrilevanti, fino all’obolo di 30 milioni messo a bilancio con l’attuale Legge di Stabilità. I governi italiani non hanno mai problemi a trovare miliardi per grandi opere inutili e costosissime – tipo il Tav Torino-Lione – o per mega-acquisti che interessano solo a qualche lobby potente come i famigerati F35: invece davanti all’esigenza veramente vitale per il Paese di trovare non diciamo miliardi ma almeno qualche centinaio di milioni da destinare alla difesa del suolo, alzano le braccia.
Tutti parlano e straparlano di “green economy”, ma per l’Italia l’economia verde è anche, è soprattutto questo: dare lavoro e futuro economico alle generazioni di oggi e a quelle che verranno puntando da una parte sui nostri talenti migliori, dall’altra prendendo di petto le nostre arretratezze più vistose.
Queste “larghe intese” contro il nostro territorio, unite a fenomeni di illegalità endemica come l’abusivismo edilizio (nel Sud è abusiva una casa su tre di quelle costruite negli ultimi quarant’anni), hanno fatto dell’Italia un Paese fragilissimo e insicuro per chi ci vive: un Paese dove per rincorrere i danni di alluvioni, frane, terremoti si spende molto di più di quanto servirebbe per finanziare un’opera urgente e straordinaria di prevenzione del rischio idrogeologico o sismico.
La verità è che in pochi altri casi come in questo avremmo bisogno di un cambiamento di rotta politica radicale: altro che larghe intese, servirebbero decisioni che sconfessano i comportamenti tenuti per lunghi anni da una foltissima schiera di sindaci, presidenti di regione, ministri. Serve insomma una diversa classe dirigente, o le immagini di queste ore dalla Sardegna continueranno a essere una drammatica e penosa abitudine.