Post su Huffington Post con Francesco Ferrante
È tutta colpa degli ambientalisti. Nel trionfo forse inevitabile di superficialità e disinformazione (più o meno innocenti) che ha attraversato i commenti alla tragedia di Genova letti su giornali e social, questa è una “perla” persino surreale: gli ambientalisti nemici del progresso che dicono no a ogni nuova infrastruttura, dunque corresponsabili dello stato di insicurezza e arretratezza nel quale versa il sistema dei trasporti in Italia.
L’hanno scritto anche autorevoli opinionisti, ma resta una sciocchezza. Così, per esempio, non ha senso mettere in relazione il crollo del Ponte Morandi con il progetto della nuova Gronda autostradale di Ponente: si può essere favorevoli o contrari alla Gronda, ma sapendo che quel progetto prevede il mantenimento del ponte e prevede che buona parte del traffico attuale continui a passare da lì.
Dovranno accertare tecnici e magistrati (non quei politici gettatisi all’inseguimento del “sangue giustizialista”) da cosa sia dipeso il collasso del viadotto. Si spera lo facciano in tempi non biblici, e qualora emergeranno gravi inadempienze da parte del concessionario il governo potrà decidere di revocargli l’affidamento secondo legge e secondo le regole stabilite nella Convenzione.
Ma già da ora si può dire che qualcosa – molto – nella manutenzione non ha funzionato. Se il ponte era deteriorato in modo irreversibile andava demolito e ricostruito, se minacciava cedimenti strutturali andava chiuso: la Gronda c’entra zero.
Certo la diffidenza verso le grandi opere è un sentimento diffuso tra gli ambientalisti, retaggio dello slogan “piccolo è bello” che fu uno dei leit-motiv dei primi gruppi green e anche contraltare al dogma opposto dei tanti per quali “grande opera” è di per sé e “a prescindere” sinonimo di progresso. Ma proprio per questo se c’è un tasto su cui gli ambientalisti insistono ossessivamente, da sempre, quando si parla di infrastrutture, è l’urgenza di spostare politiche e investimenti dalla realizzazione di nuove opere alla manutenzione di ciò che c’è: siano strade, ferrovie, porti…
In questi giorni, il dolore e lo sconcerto per quanto accaduto a Genova si sono intrecciati con la presa d’atto pressoché unanime della insostenibilità dell’attuale sistema delle concessioni autostradali. Presa d’atto dovuta, che rovescia un andazzo di decenni durante i quali buona parte delle forze politiche – oggi all’opposizione e come nel caso della Lega oggi al governo – hanno fatto di tutto per consolidare quella stessa opacità di rapporti tra Stato e concessionari, quella stessa “ritirata” dei poteri pubblici dalle funzioni di controllo e vigilanza, contro le quali ora strillano indignate.
Anna Donati, voce storica del mondo ambientalista sui temi che riguardano mobilità e trasporti, ha ricostruito questa lunga storia per il sito dell’associazione Green Italia. Per limitarci a qualche passaggio principale: la privatizzazione dell’Iri e con essa della Società Autostrade fu avviata dal governo Prodi nel 1997; più o meno contemporaneamente la scadenza della concessione in capo alla Società fu prorogata dal 2018 al 2038 e così pure furono prorogati i termini delle altre principali concessioni autostradali, il tutto in deroga a una direttiva europea del ’93 che prevedeva l’obbligo di gara.
Nel 2008 il governo Berlusconi, sostenuto da Forza Italia e Lega, fece approvare un decreto legge che dava il via libera – saltando i pareri originariamente previsti di Parlamento, Cipe e Corte dei Conti – a tutti gli schemi di convenzione tra Stato e concessionari predisposti da Anas, molto più “tutelanti” per il concessionario che per lo Stato; nel frattempo e fino a oggi è restata lettera morta la norma che imponeva di trasferire la vigilanza sulle autostrade da Anas a un’Agenzia indipendente.
Infine tra il 2014 e il 2018, sotto i governi Renzi e Gentiloni e dopo una lunga “querelle” con Bruxelles, è passata un’ulteriore proroga di 4 anni delle concessioni a Società Autostrade e al Gruppo Gavio.
Decenni, insomma, di privatizzazioni senza gara, di proroga costante degli affidamenti, di contributi pubblici e defiscalizzazioni. Decenni di scelte largamente condivise tra destra e sinistra, con rare eccezioni e con l’opposizione quasi soltanto degli ambientalisti: in tutto questo le associazioni ambientaliste da Legambiente al Wwf, grazie anche all’impegno della presidente dei Verdi europei Monica Frassoni, hanno più volte denunciato con esposti alla Commissione europea il mancato rispetto in Italia di criteri elementari di concorrenza e di efficace vigilanza pubblica nel settore autostradale.
Del resto, dare in gestione beni pubblici a privati a condizioni quanto mai squilibrate a favore dei concessionari è in Italia una pratica consolidata anche al di là del caso autostrade. Basti citare due esempi ancora più eclatanti, acque minerali e spiagge, con lo Stato che incassa canoni inferiori all’1% del fatturato di chi vende l’acqua imbottigliata e i servizi balneari (per il complesso delle concessioni autostradali la percentuale dei canoni pagati allo Stato sul totale dei pedaggi è di circa 10%).
Tornando al dopo-Genova, se l’attuale governo saprà scrivere, e soprattutto fare rispettare, regole nuove per le concessioni autostradali che finalmente tutelino l’interesse generale, sarà naturalmente un bene. Lasciando da parte ipotesi del tutto anacronistiche, tipo la nazionalizzazione con il ritorno di “carrozzoni” pubblici che gestiscano direttamente il servizio e che quando c’erano tutelavano poco e male il “bene comune”, e piuttosto operando per dare molta più forza e autorità alle funzioni pubbliche di controllo. Un servizio è pubblico, a prescindere da chi lo gestisce, solo se lo Stato ha la capacità e la volontà di imporre al gestore indirizzi, criteri, obiettivi adeguati in termini di efficienza e sicurezza.
Al tempo stesso, sarebbe ora che l’Italia guardasse in faccia e cominciasse ad affrontare un ulteriore suo problema di arretratezza, su cui sia pure in via indiretta il disastro genovese getta luce: il predominio pressoché assoluto del trasporto su strada rispetto alle altre forme di mobilità delle merci e delle persone.
Questo squilibrio comporta prezzi pesanti in termini di efficienza economica e di impatto ambientale. Ed è, anche, un fattore sempre più vistoso e drammatico di sovraccarico per la rete stradale e autostradale e perciò di insicurezza per milioni di cittadini.