Articolo con Francesco Ferrante su Huffington Post –
A parte l’anagrafe, c’è poco in comune tra Emmanuel Macron e Matteo Renzi. E i tentativi di queste ore, di questi giorni, del mondo renziano di annettersi alla vittoria di Macron nel primo turno delle presidenziali francesi, e quella annunciata del ballottaggio del 7 maggio contro Marine Le Pen, suonano disperati e vagamente patetici.
Macron è un “enfant prodige” delle élite tecnocratiche – diplomato all’Ena, brillante e fulminea carriera nel gruppo Rothschild -, Renzi ha fatto sempre e solo il politico scalando, anche lui va detto con indubbia brillantezza, i gradini della nomenclatura interna di partito: segretario provinciale del Partito popolare e della Margherita fiorentini, presidente della provincia e poi sindaco sempre a Firenze, segretario del Pd e per questa via, senza battesimo elettorale, presidente del consiglio.
Macron è un leader senza partito, ha vinto il primo tempo delle presidenziali e probabilmente vincerà la partita contro qualunque previsione e contro tutti i partiti, vecchi e meno vecchi, della quinta repubblica francese. Renzi è un leader di partito sconfitto, sconfitto rovinosamente dal referendum del 4 dicembre, e la sua via per provare a ritrovare il potere perduto passa dalla riconquista della segreteria del Partito democratico. È quasi certo che riuscirà in quest’impresa, grazie al voto nelle primarie del 30 aprile di alcune centinaia di migliaia di iscritti del Pd e grazie soprattutto all’appoggio del 90% dei gruppi dirigenti (segretari provinciali e regionali, parlamentari, consiglieri regionali) democratici.
Questa differenza pesa, e pesa molto, sui rispettivi profili: consente a Macron di presentarsi per ora credibilmente – e nonostante i suoi due anni da ministro “tecnico” dell’economia di Hollande – come leader al tempo stesso competente ed estraneo a quel mondo della politica e dei partiti che attualmente riscuote la disistima pressoché unanime dei cittadini. Impedisce a Renzi di riproporre di sé con un minimo di credibilità l’immagine che a suo tempo lo rese attraente: quella del “rottamatore”, di “homo novus” deciso a farla finita con la “vecchia politica”, i suoi privilegi, i suoi riti e linguaggi novecenteschi; di un leader non “oltre la sinistra e la destra” come dice di sé Macron, ma che sembrava volere “ringiovanire” la sinistra immergendola nei problemi e nei bisogni del tempo presente.
In più, il passo odierno di Renzi è appesantito da un’altra vistosa palla al piede che lo divide da Macron: il fatto di essere parte di una famiglia politica, i socialisti europei, che dappertutto sembrano al tramonto, divenuti persino al di là dei loro (abbondanti) demeriti i simboli di una sinistra “tutta chiacchiere e distintivo” tanto arretrata culturalmente quanto identificata dal “popolo” con l’odiato “establishment”.
Anche sul piano programmatico le analogie tra Macron e Renzi sono sbiadite. Il primo ha avvolto finora nella nebbia, nella genericità di parole e impegni del tutto vaghi, il suo programma, con un’unica eccezione: un sì convinto, ostentato, ripetuto in ogni occasione, all’Europa, la scelta di contrapporre con uno slogan bello ed efficace la sua “Francia dei patrioti” alla “Francia dei nazionalisti” impersonata da Marine Le Pen. Renzi invece sull’Europa accarezza spesso le suggestioni euroscettiche di buona parte dell’opinione pubblica, quasi ad inseguire l’antieuropeismo militante di Salvini e quello più sfumato ma comunque inequivoco dei Cinquestelle. Quanto al programma renziano, anch’esso all’inizio era abbastanza nebbioso, retorica della “rottamazione” a parte, ma mille giorni di governo hanno sostituito alla foschia delle origini indicazioni più che chiare: politiche sociali conservatrici e regressive, politiche ambientali giurassiche dalle trivellazioni petrolifere ai ripetuti decreti salva-Ilva, politiche economiche senza visione affidate quasi soltanto alla pioggia propagandistica dei bonus, alleanza stretta con gli interessi economici meno innovativi legati all’industria fossile (Eni) e automobilistica (Marchionne).
Tutto questo non vuol dire che Macron, se diventerà presidente dei francesi, farà meglio di Renzi. Significa che se Matteo Renzi spera di ritornare sulla breccia, anziché costruire la sua rivincita su un improbabile scimmiottamento di Macron, che per lui resta comunque “inimitabile”, dovrebbe partire dal fallimento evidente e radicale della sua prima stagione, da quei mille giorni che hanno dilapidato il patrimonio di fiducia in un vero e radicale rinnovamento politico incarnato per qualche mese dal “rottamatore”.