Per dirla molto semplice, dal punto di vista degli ecologisti, cioè di quanti hanno visto nel referendum non la possibilità di una “spallata” a Renzi ma l’occasione per cambiare indirizzi alla politica energetica dell’Italia, il risultato del voto di domenica assomiglia al bicchiere del famoso aforisma: mezzo pieno e mezzo vuoto.
Partendo dal “mezzo pieno”, si può dire che 13 milioni di sì – sì contro il rinnovo automatico delle concessioni per le piattaforme petrolifere e metanifere marine più vicine alla costa, sì perché l’Italia ricominci a puntare sull’innovazione energetica (rinnovabili, efficienza, risparmio, sempre meno fossili) – sono parecchi.
Per intenderci, sono di più dei voti che nelle elezioni politiche del 2013 diedero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei deputati al centrosinistra formato da Pd e Sel. Non tutti questi 13 milioni di italiani hanno scelto di votare sì per ragioni di merito, molti ce l’avevano semplicemente con Renzi; ma dal referendum esce comunque la conferma che una parte non piccola del popolo elettore, di quel 65% di cittadini maggiorenni che normalmente esercita l’elettorato attivo, chiede di integrare con molta più forza le ragioni ambientali nelle scelte di politica energetica ed economica.
Quanto al bicchiere “mezzo vuoto”, qui il discorso è più complicato. Intanto si dimostra una volta di più che proprio alla luce di un tasso crescente di astensionismo fisiologico, portare al voto referendario su temi specifici la maggioranza degli elettori è sempre più difficile. Tranne che in situazioni in cui agisce una forte spinta anche emotiva – come nel voto del 2011 su acqua pubblica, legittimo impedimento e nucleare, in cui la partecipazione fu favorita anche dalla grande impressione suscitata dal gravissimo incidente alla centrale atomica di Fukushima conseguente al terremoto -, raggiungere il quorum del 50% dei votanti in referendum tematici è oggi pressoché impossibile, e ciò – bisogna dirlo – rende quanto mai opportuna la norma inserita nella riforma costituzionale appena approvata dal Parlamento che abbassa la soglia di validità dei referendum abrogativi (per i referendum richiesti da almeno 800 mila cittadini basterà che voti la metà più uno dei partecipanti alle ultime elezioni politiche).
Ma il bicchiere è “mezzo vuoto”, anzi molto più che mezzo vuoto, se si guarda a un altro aspetto. In tutti i Paesi occidentali l’opinione pubblica più sensibile ai temi ambientali si riconosce largamente nel centrosinistra. È così anche in Italia, e per questo è impossibile vincere un referendum come quello di domenica scorsa avendo contro quello che, piaccia o no, è il partito di gran lunga maggioritario tra gli elettori di centrosinistra. Questo problema se ne porta appresso un altro, ancora più ingombrante: è il problema dell’involuzione culturale che con rare eccezioni investe oggi il Pd. Oggi tra le grandi forze del riformismo occidentale, il Pd è l’unica attestata su posizioni esplicitamente anti-ecologiche. Sia chiaro: i gruppi dirigenti del Partito democratico e dei partiti che al Pd hanno dato vita – post-comunisti ed ex-democristiani – hanno sempre avuto un rapporto difficile con il paradigma ecologico. La loro cultura politica è squisitamente novecentesca, tuttora imbevuta dell’idea che tra ambiente e sviluppo vi sia un rapporto quasi antinomico. Ma nel corso degli ultimi vent’anni questo mondo ha dovuto fare di necessità virtù, prendendo atto che la sostenibilità ambientale è percepita sempre di più come un fattore di progresso e anche di buona economia e dando una pennellata di “green” quanto meno al proprio discorso pubblico. Così, Pierluigi Bersani, leader allergico a qualsiasi idea ecologica, però non direbbe mai, come ha detto Renzi in più occasioni, che gli ecologisti vogliono riportare l’Italia all’epoca delle candele o che le energie rinnovabili sono e resteranno una piccola nicchia. Magari lo crede, ma non lo direbbe, e il discorso pubblico in politica conta altrettanto dei fatti, delle scelte concrete. Renzi in questo è più indietro: perché non solo la sua visione dello sviluppo dell’Italia è pre-contemporanea, più o meno analoga a quella di Bersani, ma perché nemmeno fa lo sforzo di adeguare le proprie parole al pensiero di buona parte dei suoi elettori.
Questa attuale deriva del Pd è evidente, dunque, tanto negli atti quanto nel lessico del suo premier-segretario. Il governo Renzi da una parte vorrebbe ricoprire l’Italia di pozzi per l’estrazione di petrolio e metano, dall’altra ha dato un colpo formidabile ai produttori di energie rinnovabili con un decreto che mette in discussione retroattivamente gli incentivi garantiti negli anni scorsi. Al tempo stesso Matteo Renzi parla con disprezzo, con sufficienza, spesso con esibita ignoranza, delle ragioni e del punto di vista di quanti sono convinti che nell’Italia, nell’Europa, nel mondo del 2016, ambiente e sviluppo siano dimensioni inseparabili del benessere.
Resta da capire quanto tempo ancora potrà durare questo equivoco, l’equivoco di un grande partito riformista i cui capi compiono scelte, e ormai adottano un linguaggio, in palese contrasto con il “mainstream” attuale del riformismo mondiale. E resta da capire cosa capiterà prima: che il Pd, i suoi elettori, si stufino di questo Renzi anti-ecologico o che Renzi per non separarsi dalla sua “comunità” cambi registro.