Articolo sull’Unità
Matteo Renzi ha ragione da vendere quando dice che la politica europea di questi anni di dura crisi economica e sociale ha prodotto soprattutto fallimenti e va cambiata radicalmente. Ma Renzi per essere credibile, per sottrarsi al sospetto che sta polemizzando con le istituzioni europee solo perché oggi l’Europa è impopolare e prenderla di mira fa guadagnare consensi, dovrebbe accompagnare questa constatazione, di per sé incontestabile, con altre verità non meno evidenti e impegnative.
Prima verità. Se l’Europa è guidata in modo inadeguato, miope, la colpa non è dei “burocrati” di Bruxelles, ma di decisori squisitamente politici. La Commissione e il Consiglio sono soggetti politici, rispondono a maggioranza e a logiche politiche: sono espressione di una “larga intesa” tra popolari e socialisti, quella che ha eletto prima Barroso e poi Juncker e quella che governa in alcuni dei principali Paesi dell’Unione come Italia e Germania. Dunque per cambiare in meglio le politiche europee basterebbe che il Partito socialista europeo, di cui Renzi è uno dei leader, cambi lui i propri programmi ed obiettivi.
Seconda verità. Se l’Italia vuole impegnarsi davvero per dare all’Europa maggiore forza e una nuova direzione, deve intanto applicare le innumerevoli “buone norme” europee. Il record di procedure d’infrazione aperte dall’Unione europea contro il nostro Paese (sono un centinaio, cresciute del 10% solo nel 2015) non nasce infatti dal rifiuto di regole inutili o dannose per gli interessi generali dell’Italia, ma dall’incapacità o dalla non volontà di attuare norme che tutelano di più e meglio i diritti, gli interessi, la salute degli italiani. Basti pensare alle inadempienze italiane in materia di ambiente: dall’emergenza rifiuti in Campania alla depurazione delle acque (3 italiani su 10 non sono allacciati a depuratori), dal trattamento degli scarti pericolosi alla bonifica delle discariche abusive.
Terza (e più articolata) verità. Le convulsioni che rischiano di disgregare la costruzione europea, compreso il ritorno inquietante di egoismi e “sovranismi” nazionali, sono certo figlie della congiuntura economica sfavorevole cominciata nel 2008 e durata fino ad oggi, che ha prodotto nel “vecchio continente” decrescita (non quella “felice” promessa da Latouche, ma una decrescita quanto mai infelice che sta distruggendo lavoro e welfare), disoccupazione, aumento della povertà. Ma discendono anche da una causa molto più profonda e strutturale, a sua volta generatrice di un paradosso: l’Europa non crede più in se stessa perché vede il suo peso globale ridursi rapidamente, capisce di essere sempre più “piccola” e meno influente nel mondo multipolare di oggi. Dopo secoli di egemonia incontrastata, oggi la misura del suo ruolo economico e geopolitico si avvicina sempre di più alle sue dimensioni fisiche, demografiche: occupiamo il 3% della superficie terrestre, rappresentiamo il 7% della popolazione mondiale, in futuro la nostra economia conterà inevitabilmente meno che mai nel passato. A questo passaggio d’epoca, qui il paradosso, l’Europa risponde ridando fiato ad anacronistiche divisioni nazionali, cioè creando le condizioni per una sua definitiva irrilevanza. Per dire: oggi al tavolo del G7 siedono quattro Paesi europei, se i tassi di crescita economica delle diverse aree del mondo continueranno ai ritmi attuali, fra trent’anni tutti e quattro, Germania compresa, avranno perso titolo per partecipare al consesso delle economie più forti. Per rimanere protagonista nel mondo multipolare di oggi e di domani l’Europa deve imboccare due strade obbligate e collegate: unirsi davvero proponendosi come un unico, compatto soggetto geopolitico (altro che “brexit”…), e trovare una propria specifica vocazione economica, sociale, culturale. Insomma: nella “quantità” dello sviluppo l’Europa non può reggere più il confronto con Paesi e zone del mondo molto più grandi, più popolosi, più ricchi di materie prime di noi, invece può rimanere egemone o in ogni caso competitiva nella “qualità” dello sviluppo. Questo aspetto ne richiama un altro a noi particolarmente caro: l’urgenza e al tempo stesso l’utilità per l’Europa di puntare su quello che i Verdi europei hanno chiamato un “green new deal”, cioè su una prospettiva di riconversione dell’economia nel senso della sostenibilità ambientale. Il “green new deal” conviene a tutto il mondo, in particolare per fermare i cambiamenti climatici che rischiano di cancellare non il nostro pianeta – che è già sopravvissuto ai peggiori shock climatici – ma la possibilità del benessere umano su di essa. All’Europa conviene ancora di più, perché può salvarla non solo dalla crisi ecologica, ma dal rischio di un declino inarrestabile e persino da problemi pressanti e contingenti come l’attacco del terrorismo islamista (a sostentare l’Isis è l’economia del petrolio…) e la pressione migratoria (se non si ferma il “global warming” tra pochi decenni i profughi climatici saranno mole decine di milioni, molti di più di quelli messi in fuga dalla guerra, e la gran parte di loro si riverserà verso l’Europa).
Quest’ultima verità ci suggerisce anche due banali domande a Matteo Renzi. Perché mai l’ambiente è totalmente assente dalle preoccupazioni, dalle proposte, dalla “visione” del presidente del consiglio? E più in particolare: perché Renzi prima ha innalzato la bandiera consumata e antistorica delle trivellazioni petrolifere a terra ed in mare, l’opposto di qualunque “green new deal”, e ora ha scelto di boicottare il referendum anti-trivelle, via d’uscita “onorevole” e democratica da un evidente errore di strategia, con il rifiuto di accorparlo alle elezioni amministrative?
Solo riconoscendo queste tre verità e facendone la premessa o quanto meno il corollario della giusta rivendicazione di un cambio di passo nelle politiche europee; e solo, aggiungiamo, cambiando risposta a queste due domande, Matteo Renzi eleverà la sua aspra dialettica con Bruxelles alla dignità di una vera “visione” sul futuro dell’Europa. Solo così la libererà dalla sgradevole impronta di una polemica esclusivamente ad uso interno, buona per inseguire il populismo anti-europeo di Salvini o quello anti-casta di Beppe Grillo.
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante