Poche ore dopo l’attacco a Parigi, il leader del centrodestra francese Nicholas Sarkozy ha proposto di rinviare la Conferenza sul clima – Cop 21 – in programma nella capitale francese dal 30 novembre all’11 dicembre. Il ministro degli esteri Laurent Fabius, socialista, che sarà il capodelegazione del governo francese alla Conferenza, gli ha risposto che non se ne parla, l’appuntamento è confermato: si svolgerà con misure di sicurezza più stringenti e con meno eventi collaterali di quanto previsto, ma trovare un accordo generale per impedire che il riscaldamento globale continui – ha detto Fabius – è troppo importante per consentire un rinvio. È importante, aggiungiamo noi, anche perché un accordo così sarebbe un ottimo modo di rispondere con la responsabilità, la solidarietà – insomma: con l’umanità – alla barbarie messa in scena a Parigi.
Questa stessa differenza di posizioni tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, rispetto all’urgenza di politiche di svolta su energia e clima,, si è riproposta anche altrove: negli Stati Uniti, dove da una parte Obama ha finalmente messo il suo Paese sulla via dell’impegno per ridurre le emissioni dannose per il clima e recentemente ha bloccato l’oleodotto Keystone, e dall’altra i repubblicani in molti casi addirittura cavalcano le tesi negazioniste per cui il clima che cambia sarebbe, più o meno un’invenzione; in Gran Bretagna, dove il governo Cameron liberatosi dell’alleanza con i “lib-dem” aumenta (caso unico nel mondo) i sussidi ai combustibili fossili.
Come ogni regola che si rispetti, anche questa che vede le destre schierate a difesa dell’energia fossile e le sinistre favorevoli a un modello alternativo “low carbon” basato su fonti rinnovabili e tecnologie per l’efficienza energetica, ammette le sue eccezioni. Una, positiva, riguarda la Germania, con la cancelliera Merkel che non ha mai messo in discussione la “energiewende”, la svolta ecologica lanciata dal governo rosso-verde alla fine del secolo scorso: così, la Germania da molti anni spende in incentivi alle energie pulite più del doppio dell’Italia e di ogni altro Paese europeo, e grazie a questa scelta si è garantita una solida leadership industriale, tecnologica, competitiva nel campo della new energy.
La seconda eccezione invece è in negativo e riguarda, ahinoi, proprio l’Italia. Qui da Berlusconi, a Monti, a Letta, a Renzi, sono cambiati i colori dei governi ma le politiche energetiche sono rimaste sempre inchiodate al grigio delle energie fossili. Certo divergono i toni, le parole: c’è davvero poco in comune tra le mozioni negazioniste che il centrodestra fece approvare in Senato quando era maggioranza e quelle, virtualmente molto più avanzate, votate su proposta del Pd in vista della Cop 21. Ma quando si passa dalle parole alle politiche concrete, le differenze si assottigliano fino quasi a scomparire: dall’attacco alle rinnovabili portato per primo dall’allora ministro Scajola alle norme spalmaincentivi varate dal centrosinistra, anche queste un colpo grave per le energie pulite, la continuità è evidente, plasticamente rappresentata dall’attuale ministra dello Sviluppo Guidi, competente per l’energia e legatissima a Confindustria, che sembra ispirare le sue scelte molto più agli interessi dell’Eni che non a quelli generali dell’Italia. Così, proprio il governo Renzi ha lanciato con il decreto Sblocca-Italia un grande programma nazionale di trivellazioni petrolifere – con tanto di deroghe alle leggi antinquinamento – che sembra uscire da una seduta spiritica con Enrico Mattei e rappresenta il tentativo, anacronistico e disperato, di fermare il declino dell’industria fossile. Altrettanto sconcertante è che in vista della Cop 21 l’Italia in Europa faccia da sponda al blocco dei Paesi più retrivi , guidato da Inghilterra e Polonia, riportandoci ai tempi del Berlusconi presidente del consiglio che prima della Conferenza di Copenaghen (2009) fece di tutto per boicottarne il successo.
Perché questa “macchia” italiana? Per la debolezza degli ambientalisti in politica? Per l’arretratezza anche culturale dell’intera classe dirigente e in particolare delle rappresentanze industriali (ma anche sindacali)? Per la disattenzione – impressionante se paragonata con gli altri Paesi europei – dei media nostrani? Probabilmente per tutti questi motivi. Ma oggi oltre che chiedersi perché la politica italiana, di destra e di sinistra, sia così “anti-ecologica”, serve più di tutto mettere in campo azioni che contribuiscano a cambiare le cose, a costruire una politica progressista e moderna capace di alimentare la “rivoluzione” energetica in atto nel mondo anziché ostacolarla. Questo è decisivo non solo perché, come ripete spesso Obama, noi contemporanei siamo le prime generazioni ad accusare gli effetti dei cambiamenti cliamatici ma anche le ultime che possono fare qualcosa per affrontarli. Lo è pure per una ragione più “pratica”: accelerare l’uscita dall’energia fossile è, per un Paese come il nostro che di petrolio malgrado l’ossessione trivellatrice di Renzi ne ha pochissimo e che invece, per esempio, abbonda di sole, un buonissimo affare sul piano dell’indipendenza energetica (indipendenza anche da aree geopolitiche del mondo sempre meno rassicuranti), ed è la premessa per giocare da protagonisti in quel segmento rilevante di innovazione tecnologica e di competizione economica globale centrato per l’appunto sulle nuove energie.
Per tutto questo Green Italia e Possibile, 10 mesi dopo il vano annuncio di Renzi che prometteva un “green act” diventato rapidamente un’araba fenice, presentano a Roma con Pippo Civati e con la copresidente dei Verdi europei Monica Frassoni il loro “green act”: un pacchetto di disegni di legge per la #conversioneecologica dell’economia che si occupa di città sostenibili e mobilità nuova, di economia circolare e rifiuti zero, di fiscalità ambientale e stop al consumo di suolo, di semplificazioni burocratiche per le energie rinnovabili ed efficienza energetica. Proposte concrete e subito applicabili su cui chiederemo il sostegno, l’impegno di amministratori locali, di imprese innovative, delle diverse forme di cittadinanza attiva dalle associazioni ambientaliste ai comitati che si battono contro le trivellazioni petrolifere.
L’Italia è sempre più lontana dalla parte più dinamica dell’Europa non solo per minore aumento del Pil. C’è un ritardo ancora più preoccupante che investe la capacità di visione, di progetto delle nostre classi dirigenti e che vede l’analfabetismo ecologico come una dei sintomi più evidenti. Le nostre proposte di #conversioneecologica possono aiutare a rompere questa barriera di arretratezza che ci ha condannato finora e rischia di condannarci ancora a lungo a una disperante alternativa tra decrescita infelice e sviluppo insostenibile.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante